Se Aldo del Bar fosse un ipotetico campione di questo strampalato album delle figurine marinesi sarebbe stato sicuramente l’allenatore-giocatore. Come ha capito chi ha avuto il tempo e la pazienza di leggersi qualche figurina precedente, lui o il suo bar – l’Atlantic, in piazza di sopra, che tutti chiamavano però il Bar da Aldo – era al centro della vita maschile della Marina. Le donne marinesi ci entravano, nell’età misogina della nostra infanzia, solo per accompagnarci l’estate, con curiosità e prudenza, a comprare un gelato due gusti con le 20 lire dorate con le foglie di quercia, e raramente superavano il bancone del gelato sulla sinistra, gettavano un’occhiata al bancone lungo con lo specchio istoriato di rose e fiori dipinti in rilievo, ai tavolini delle carte del padrone e sotto che erano la rovina delle tasche e del fegato dei loro mariti, ma non arrivavano mai alla porta chiusa del biliardo, regno assoluto del boccino e della stecca, dove presto molti di noi si credettero campioni, non certo io che ero una schiappa totale e che a carte non andavo oltre scopa coll’asso, briscola e scala 40.
Aldo regnava su quel crocevia alcolico insieme alla moglie Bastianina, una donna bella e pungente che teneva a bada la marmaglia con una battuta o un sorriso e uno sguardo di compatimento. L’Atlantic era diventato quello che era dopo che le bettole fumose e buie come la Secca e l’Africhella - le nostre osterie gucciniane – si erano disseccate al sole del progresso e anche Luchino si era spostato con la sua pentola di acqua bollente a vendere granfie di polpo sul panchino davanti alla porta a vetro del biliardo che avremo sfondato 100 volte con mille pallonate.
Quel bar era molte cose.
Era il posto dove da bimbetti rubavamo caramelle e paste anche per allenarci ai furti di destrezza al banco dei giocattoli di Pallino, che tutti i martedi si presentava puntuale al mercato in Piazza di sopra, proprio davanti all’Atlantic, sapendo che lo avremmo in qualche modo fregato.
Era il posto dove andavamo a imparare le carte e le risse. Me ne ricordo una dove il mi’ babbo Veleno, forse dopo una partita in televisione che aveva scaldato gli animi, dette una puntata a un malcapitato e lo scaraventò su un grosso espositore in legno carico di bottiglie di vino, che Aldo teneva come una reliquia di classe non certo destinata a quegli avventori, frantumando lo scaffale chiaro di pino e tingendo di rosso Chianti tutto il pavimento. E’ una delle poche volte, forse l’unica, che ho visto Aldo veramente incazzato (a volte faceva finta di non accorgersi che rubavamo per pietà e vergogna di noi) e al mi’ babbo Veleno toccò pagare, in dolorose rate, quel ben di Dio continentale che si sarebbe scolato più che volentieri.
Era il posto dove abbiamo conosciuto tutti i tipi strani, fantastici e a volte magici di Marciana Marina, come Palle e Paolo di Giselda, il primo che sembrava il tenero Cucciolo di Biancaneve – al quale mettevamo le miccette nelle sigarette che lui accettava sempre, ogni volta candidamente ignaro dell’esplosiva tirata che stava per fare – e il secondo un Brontolo roco e incomprensibile che abbaiava a una vita difficile e che lo impauriva.
Quel bar era il posto dove, nelle sedie e nei tavoli sotto il lungo tendone blu, imparavamo gerarchie e stratificazioni del paese, vedevamo sparire i vecchi e i giovani diventare uomini – allora si era uomini a 20 anni, di mezza età a 40 e vecchi a 60 – e prendere il loro posto al tavolo, alle carte e al biliardo.
Era il posto dove imparavamo le storie, la vita e la politica, le antipatie e gli odi, la vendetta e il perdono.
E Aldo regnava su tutto questo con la sua flemma imperturbabile e con il suo fischio muto del quale nessuno ha mai scoperto la melodia segreta, condito da battute rare ma che non lasciavano scampo, che erano la radiografia di caratteri, vizi e segreti studiati per anni da dietro quel banco fiorito, con lo straccio in mano. Aldo era un uomo di pace, felice quando poteva inforcare la graziellina della sua maturità per fare un giro fuori dai confini di quella piazza che era il suo dominio e il suo destino.
E forse il simbolo del suo carattere, del suo Atlantic e della sua vita di saggio e imperturbabile barista era il grosso quadro che un giorno fece la sua comparsa attaccato alla colonna che faceva da divisore ipotetico tra il banco e la sala con le sedie della televisione. Aldo era della Fiorentina, ma i suoi due figlioli – Pierluigi e Gianni – sono juventini e quando cominciarono a frequentare e a lavorare al bar la cosa cominciò a diventare problematica. Quel quadro era un segnale e un avviso di pace per tutti: un giocatore in maglia viola gigliata e uno in maglia bianconera saltavano insieme per contendersi un pallone, ma la testa dello juventino era leggermente più in alto di quello della fiorentina, quasi a riconoscere – ahimè – la superiorità del tifo zebrato marinese su quello per la viola.
Aldo era anche un mago – come quello di "Gianni e il magico Alverman" che andavamo a vedere a bocca aperta all’Atlantic – e dal suo banco usciva qualsiasi cosa. Quegli scomparti ghiacciati e gli scaffali pieni di liquori con nomi misteriosi e improbabili erano come il sacchetto di Eta Beta. Ce ne dette una prova una sera di pioggia, quando io e Franco Galletti, che avremmo avuto più o meno 15 anni, arrivammo ridacchianti al banco e gli chiedemmo una Cerveza Azzurra credendo di metterlo in difficoltà con una marca della cui inesistenza eravamo convinti. Aldo ci guardò, si chinò sotto il banco e comincio a spostare bottiglie tintinnanti dentro il frigo poi, passati un paio di minuti buoni, mentre io, Franco e i nostri amici più fessi di noi ce la ridacchiavamo per lo scherzo riuscito, Aldo emerse imperturbabile dal banco e ci mise sotto il naso due bottiglie di Cerveza Azul che pagammo, muti e sbalorditi, a caro prezzo. Ho per lunghi anni pensato che in qualche modo le avesse fabbricate li sotto, poi un giorno, in uno dei miei viaggi senza arrivo, ho trovato una bottiglia di Cerveza Azul, però prodotta ad Hokkaido, nel nord gelato del Giappone, dove le scimmie l’inverno se ne stanno a mollo nei laghetti termali. Come fosse arrivata al bar Atlantic è un mistero che forse nemmeno Aldo avrebbe saputo più spiegare.
Poi, mentre da sotto il tendone di Aldo sparivano, richiamati dal tempo che passa, i tipi strani e fantastici che avevano traversato una o due guerre e popolato la nostra infanzia salmastra, noi cominciammo a prendere il loro posto e restavamo seduti a quei tavoli affacciati tra gli alberi e la piazza anche dopo che Aldo, chiusa la porta, salutatici appena con un cenno di compatimento e guardando se in cielo c’erano stelle o nuvole, inforcava la graziellina e ci lasciava padroni del bacolaio deserto.
Mi ricordo una notte tiepida a raccontarci la vita con una banda di capelloni romani sotto il tendone dell’Atlantic. Dopo che Fortunato aveva cercato di centrarci dalla finestra della sua camera sopra il tendone, prima con i suoi lanci a effetto d’acqua che sfidavano le leggi della fisica e che, usando l’ultima risorsa, la più terribile, centrò direttamente qualcuno di noi col contenuto cancaretto, mentre la notte ci decimava uno a uno col sonno, arrivò l’usignolo e cantò tra gli alberi e i lampioni. Un canto liquido che invase la notte, toccò le stelle, riscese sul selciato di Santa Chiara, si frantumò sui mosaici di sassi ci entrò meraviglioso e potente nel cuore. E ci fece tacere. Ammutoliti dalla bellezza, dalla gioia di stare lì, in quel momento, in quel paese, in quella piazza, sotto quelle stelle… senza il coraggio di dircelo. Lo capì però anche Fortunato, che chiuse piano la persiana e tornò a letto ad ascoltare probabilmente anche lui quel canto che non era per noi.
Ma forse, a ripensarci, quel magico cantore invisibile ce lo aveva mandato Aldo perché non combinassimo guai.
Umberto Mazzantini
(Ringrazio la famiglia Paolini per le foto)