Senza saperlo - e senza averlo mai visto in vita sua - Paolino Zun Zun era, almeno in inverno, una copia ridotta, ma più cicciottella e rotonda, di Zio Fester della Famiglia Addams: pallido e liscio come una candela delle offerte in Chiesa e con un lungo pastrano nero da quale spuntavano, sopra due scarponi, due zampe di pantaloni con dentro due gambe che da molti anni nessuno aveva mai visto nude e due mani calzate di guanti senza dita per poter maneggiare anche al freddo gli attrezzi del suo mestiere: il calzolaio.
Raramente Paolino Zun Zun abbandonava il percorso fra la casa di via Garibaldi – dove viveva con la sua piissima sorella che aveva un lato della faccia percorso da una grande voglia violastra - e la sua bottega in via XX settembre, proprio di fronte alla casa del mi’ zio Lampo e a forse 10 metri dalla stanza dove ero nato. Un mondo quotidiano che cominciava e finiva in una cinquantina di metri lastricati di granito, passando sotto la volta bassa di via Zara e poi svoltando subito, dopo aver annusato il mare. Le rare volte che Paolino proseguiva era per andare a messa la domenica e, l’inverno, quando i turisti non c’erano più, per andare a cercare le scarpe rotte trascinate dal mare in mezzo all’aliba che gli servivano come effimeri pezzi di ricambio per le nostre scarpe bucate e sfondate.
Paolino – e un po’ tutti gli artigiani all’epoca - era un artista, un pioniere e un profeta del riciclo e dell’economia circolare, anche se a volte le nostre scarpe sputavano un’ombra di sale e rivelavano l’inganno di suole che aveva giurato nuove di trinca.
Paolino aveva una strana attrazione per i bimbetti, capiva la nostra malizia, e aveva anche una grossa chiave di ferro, di quelle lunghe con un anello in fondo che sembrava uno di quelli del moletto dove si legano i guzzi, e in cima una specie di testa di mazzolo con le scanalature e i denti che servivano ad aprire il portoncino della sua bottega, quella che poi diventò lo studio di Dante Casabruna, pittore, professore di disegno alle scuole medie e comunista.
Era con quella chiave brunita che, tiratala fuori dalla tasca del pastrano, Paolino Zun Zun, quando ci trovava lontano da occhi indiscreti, ce la mostrava ritta davanti al cavallo dei pantaloni e facendola ondeggiare su e giù, diceva: «Bacuici!». E fu allora che lo ribattezzammo Paolino Baciuci.
Nella cosa non c’era però niente di “pedofilo”: Paolino, proprio perché era Paolino e schivava le parole e i gesti rudi degli uomini e i bar, era uno dei pochi adulti che parlavano con noi il nostro stesso linguaggio e sapeva quanto noi quando le volgarità a sfondo sessuale ci attraessero. Per lui, tutto tomaie e chiesa, probabilmente gli incontri con quei bimbetti che pescavano ratti dal terrazzo accanto alla bottega di frutta e verdura di Maria la Cavallaia erano un ritorno a un’infanzia dalla quale non era mai stato svezzato. Solo che Paolino non capiva che noi per lui non provavamo la stessa simpatia e attrazione, proprio perché ci mostrava una debolezza che avevamo paura di vedere guardandoci d’improvviso nello specchio, dove invece ci vedevamo già grandi.
Piano piano, mentre crescevamo e diventavamo sempre più bastardi, i rapporti fra noi e Paolino Baciuci si fecero sempre più conflittuali e l’esibizione della chiave ci faceva divertire sempre meno, come una barzelletta sconcia che ci si racconta alle elementari e che alle medie è già passata di moda.
E Paolino, uno dei pochi uomini ad andare a messa anche quando non c’erano feste comandate, matrimoni o funerali, chiaramente e irrimediabilmente democristiano, aveva anche altri “nemici” uno dei quali era Caccamino che aveva la falegnameria proprio di fronte alla bottega di Paolino Zun Zun e dove si ritrovavano per un bicchiere e parlare di politica i socialisti marinesi. Un presidio laico proprio davanti all’antro di Paolino, pieno di santini e da dove usciva un odore strano come un misto di muffa, cuoio, colla e incenso di chiesa.
Tra i due artigiani non c’era nessuna simpatia e Caccamino – che aveva delle belle e inarrivabili figliole, che ci piacevano un sacco e che il babbo si portò via troppo presto per ritornare in Continente – un giorno, viste le nostre scaramucce con Paolino Baciuci, ci propose un blitz punitivo che ci piacque molto, anche perché ci toccò come paga della nostra malefatta qualche centinaio di lire per comprare le bustine Panini dei calciatori.
Era piovuto così tanto che l’acqua aveva scavalcato la soglia della porta di Paolino e, precipitata a cascatella dai due gradini che si scendevano per portare le scarpe al calzolaio, aveva allagato lo scantinato. Dentro c’era Paolino che, frignando e appellandosi alla Madonna e ai santi del Paradiso, aggottava l’acqua con un bussolotto buttandola sulla strada.
Noi partimmo dalla porta della falegnameria spalancata con i secchi pieni d’acqua dei quali ci aveva dotato Caccamino e, veloci come cani randagi, riempimmo la bottega di Paolino Baciuci di molta più acqua di quella che aveva aggottato. La seconda ondata fu di secchi pieni di segatura lanciata dalla porta senza pietà. Paolino Zun Zun uscì dalla bottega ormai trasformata in poltiglia mézzo d’acqua e impeciato di segatura, urlante e maledicente, proferendo minacce di ogni tipo verso di noi, Caccamino e i suoi compagni e sodali che se la ridevano.
Fu la prima volta e l’ultima che sentimmo Paolino Zun Zun proferire frasi intere e un discorso compiuto con la sua voce di vecchio bimbo, irato e quasi piangente.
Da allora, e per un bel po’ di tempo, la sua chiave di ferro diventò per noi un pericolo fisso: appena ci vedeva ce la tirava contro con la forza che gli dava l’umiliazione patita, come fosse un coltello vendicatore, e forse in via Zara c‘è ancora qualche buco che fece sull’intonaco cercando di colpirci.
Cominciammo a fare di tutto per schivarlo e lui aspettava solo di trovare uno di noi da solo e non spalleggiato dal branco irridente.
Paolino smise di essere Baciuci (anche perché di Ciuci al Tirassegno ce n’era un altro ma di tutt’altra pasta: senza casa e chiesa ma spesso in galera), Caccamino chiuse la falegnameria, noi dimenticammo presto i nostri feroci divertimenti senza misericordia con un uomo intimorito dalla vita e che la sua vita ha concluso appartato tra la chiesa e le scarpe dei marinesi, ad aggiustare un po’ anche la nostra vita di ingrati.
Umberto Mazzantini