Mario Mazzei avrebbe compiuto 101 anni il prossimo 25 gennaio. Invece se n’è volato senza far rumore nel turbine del virus che ha travolto la casa di riposo di Portoferraio.
Ci stava da meno di tre anni e anche lì l’avevano capito subito che non era uno come gli altri, si vedeva da come le operatrici se lo coccolavano. Era lì soltanto perché non riusciva più a vivere da solo, nella sua casa di Campo all’Aia, dove il profumo ti portava a cent’anni fa.
Nella grande stanza all’ingresso il palmento era diventato una dispensa chissà da quanto, eppure l’odore del vino era rimasto intrappolato nelle pareti e avvolgeva un grande tavolo sempre pieno di fiaschi d’acqua del Poggio, fave secche, liquore di mirto e barattoli di salsa fatta coi pomodori del suo orto.
Ma le magie con Mario non finivano qui e ti portava nello stanzino accanto, si sedeva su uno sgabello, si copriva le gambe con un panno verde e cominciava a dare forma ai rami messi a mollo la sera prima. Con un falcetto affilato, silenzioso e concentrato, intrecciava meraviglioso cestini, come gli avevano insegnato, quando era bimbo, i marcianesi che venivano giù a zappare le vigne.
La casa dove era cresciuto, però, era un’altra, in mezzo alle vigne affacciate sul mare. Il babbo Virginio dai grandi baffi all’insù usciva presto coi fratelli e le sorelle più grandi, tutto il giorno chini nei campi, la mamma a sgobbare a casa.
Poi venne anche per Mario il turno nei campi. Poi venne la guerra.
Suo fratello Elio partì e lui rimase all’isola. A Elio toccarono i campi di lavoro in Germania e, non si sa come, riuscì a tornare vivo. Mario era soldato nelle postazioni costiere sull’isola, dove i giorni erano scanditi da marce interminabili da Fetovaia a Lacona e ritorno ordinate da superiori invasati e da turni di guardia di notte, solo, con ogni tempo, davanti al mistero del mare.
Tutto sommato, però, non gli era andata così male. Almeno finché non arrivarono i tedeschi a Marina di Campo. Li disarmarono, li radunarono in una buca circondata da filo spinato, dove ora c’è l’Hotel Select, in modo da poterli tenere sotto controllo perché erano in inferiorità numerica. Li incolonnarono, direzione Portoferraio. Mario cominciò a camminare in fretta e a avanzare nella colonna senza farsi notare. “A Procchio li stradelli li conosco a memoria, appena posso mi mollo all’ingiù” pensò fra sé, e alla prima occasione sparì senza che nessuno se ne fosse accorto. Passò mesi nei boschi lì intorno con un amico, qualche volta sgattaiolavano in casa per darsi una lavata e svanivano di nuovo nel nulla. Si salvarono anche loro.
Finita la guerra di nuovo vigne da zappare e sudore vero. Il fratello più piccolo Sesto era riuscito a studiare, aveva fatto il liceo classico e era partito per Milano. Mario era rimasto a casa, ma sognava di partire anche lui. Era rimasto a sudare nei campi, in cantina, a fare ceste e cestini L’unica mansione che si rifiutava di fare era andare a pescare, solo perché soffriva il mal di mare.
Un giorno decise di chiedere il permesso di partire anche lui.
- “Babbo, qui si sgobba e ‘un si vede la fine.”
- “Eh, ora c’è da fa’ un po’ di sacrifici, ma vedrai che col tempo… Lo sai no? Passati i sette anni di vacche magre…”
- “Babbo, ma qui le vacche grasse non arrivano mai! Io voglio anda’ a Milano, vado da Sesto!”
- “Non se ne parla nemmeno. I tu’ fratelli se ne so’ andati e sei rimasto solo te. Te resti qui a lavora’ con me!” disse il babbo con un tono che strozzava in gola ogni possibile replica.
Un bel giorno il vecchio Virginio cedette e Mario partì.
Lavorò in fabbrica fino alla pensione, un tran tran che lo rassicurava. Quando arrivava agosto tornava all’Elba, dove gruppi di giovani si costruivano capannine di canne su quella spiaggia semideserta che non sospettava il fiume di turisti che sarebbe arrivato di lì a poco. La sera stavano a veglia in tanti, sotto un glicine, con il pittore Silvano Bozzolini e i figli Andrea e Luca, lo scrittore Luigi Berti e i figli Lapo e Duccio, con zio Alfredo che era diventato cronista della Rai, il fratello Sesto che lavorava in una casa editrice, con Andrea Addini che faceva l’avvocato a Firenze. Qualche capannina più in là c’erano i Pittori delle dune, ma erano pianeti lontani.
Abitava con Erina, l’unica sorella rimasta a casa e, quando anche lei se ne andò, viveva da solo, cucinava, faceva la legna, coltivava un orto troppo grande per lui, conosceva ogni erba, ogni palmo di scoglio lì intorno, le fungaie, i segreti degli innesti e poi... i cestini! Belli come li faceva lui, non li faceva nessuno.
Non si era mai sposato, ma adorava la compagnia delle donne e le donne adoravano lui, il suo tono pacato e mite, gli occhi veloci e vispi, mai una battuta fuori posto, la gentilezza e la semplicità con cui ti accoglieva in casa. Marlies era la sua preferita e gli brillavano gli occhi quando la vedeva. Lei lo passava a trovare spesso e a volte portava le sue ospiti a conoscerlo. Me lo ricordo un pomeriggio d’estate che faceva la salsa sotto la pergola, la sua adorata gatta Principessa lì accanto, circondato da giovani tedesche affascinate dal suo mondo incantato, consapevoli del privilegio di trovarsi davanti uno scrigno raro di saperi ancestrali.
L’età non contava. Giovani e vecchi, quando avevi bisogno, lui c’era. E quando era lui ad avere bisogno, zio Franco, Marco, Giovanna e gli altri suoi amici correvano.
Era un amico di poche parole, un’anima pura che amava leggere e di nascosto scriveva poesie.
In una c’era scritto:
“Se mi vuoi bene, dimmelo ora che sono vivo!”.
Per fortuna te l’ho detto un sacco di volte.
Buon viaggio Mario.
Angela Provenzali