Franchino, Franco Mazzei, viveva nella casa in fondo alla chiostra di San Francesco, quella con la grande cantina e il palmento sotto dove andavamo a zampiacare l’uva che il su’ babbo, Augusto, portava sulla groppa del suo grosso asino dalle vigne che aveva e coltivava al piano di San Giovanni, dove oggi sono nate case, e allo Zuffale, oggi riconquistato dalla macchia, ma che allora era ancora un risalire fumicante di salti, tagliati da scannafossi e strade per gli asini.
Accanto a Augusto, nella stessa chiostra che si apriva e si apre ancora dopo la volta scendendo verso la marina – dove poi sarebbero andati a stare Ada e Terzo Novelli - ci stava Beppe Lo Zoppo e la sua numerosa famiglia che prima dell’alba ci svegliava con lo zoccolare dei muli che risalivano a fare legna sul monte e che la sera a buio, carichi e stanchi, ci avvertivano che un altro giorno, di pioggia, di sole o di neve era finito.
Augusto era un uomo grande, forte e saggio, che conosceva i segreti e i tempi della natura e sapeva cucinare anche i ricci di macchia, al quale la sorte aveva dato un figlio e una figlia simpatici, ma Franchino era considerato poco più di un bimbo dagli uomini e non ancora un uomo dai bimbi, anche se portava i pantaloni lunghi riservati agli uomini. Era per statura e per indole eternamente curiosa, uno di quegli esseri che nella vita restano in mezzo ed era l’unico uomo a poter entrare nelle case delle donne senza destare la gelosia degli uomini che zappavano le vigne e il mare o le maldicenze delle beghine.
E Franchino amava visitare le case altrui, scaldarsi al fuoco di grandi camini come quelli che avevamo noi, abbeverarsi di racconti e di un goccio di vino, raccontare storie, fare commenti taglienti come rasoi che riuscivano a mettere a posto persino Tonina, la mamma di Nilo del forno, che aveva la lingua pronta quanto il rosario e che l’inverno veniva a riempire lo scaldino con la nostra brace.
Ma a Franchino piaceva soprattutto ascoltare, guardare la vita degli altri. E lui piaceva a noi, perché era strano vedere un uomo della nostra stessa altezza e perché faceva un presepio magnifico, con un cielo cobalto di stelle d’oro e uno sciamare di pecore, pastori e figurine – e una volta anche acqua vera e non di stagnola – che erano la nostra beatitudine e la nostra invidia.
Nella foto che vedete – che, dato le magliette a strisce, dovrebbe essere degli anni ’60 – in un giorno che sembrerebbe di tarda primavera, Franchino guarda impavido la macchina fotografica con i suoi occhiali spessi come un culo di bottiglia. E’ insieme, naturalmente insieme, a uomini grandi e grossi, forti ed esperti della vita, del mare e del nostro piccolo mondo e, accanto a lui, accovacciato dietro a uno dei pilastri che scavalcavamo come rane a gambe aperte per allenarci a Dissi o a Cero-cero la Cavalla di Montenero, anche lui con una maglietta a righe “da ragazzo”, c’è Adamo, il giullare iconoclasta della Marina. E’ una delle commoventi foto di quegli anni in cui La Marina era ancora una comunità che non lasciava nessuno indietro e dove ognuno aveva il suo posto e il suo ruolo. Franchino era il piccolo ago che cuciva ancora tra strade e case la minuta storia giornaliera di un Paese in attesa del futuro.
Io me lo ricordo dopo quella fotografia, quando il tempo lo aveva rinsecchito e reso fragile, piegandogli un po’ le gambe e segnandogli di rughe quel viso da eterno bimbo. A volte, quando si infervorava, sembrava severo e definitivo come Tina Pica, che avevamo visto al cinema in “Pane Amore e Fantasia” con De Sica e una bellissima Gina Lollobrigida.
Non mi ricordo se fu lo stesso anno o poco prima della grandinata di Capodanno, quando Marciana Marina si risvegliò bombardata da chicchi che avevano occupato con un palmo di ghiaccio le strade e sui quali la mattina spiccavano come strani ricordi dell’anno appena passato gli oggetti vecchi che allora la gente lanciava dalle finestre. So però che era inverno e che la bufera arrivò, annunciata da qualche predizione di pescatore e dai guzzi che venivano tolti dalla spiaggia per riparali dietro le murette e nelle strade o arrampicati più in cima possibile allo scalo sterrato del Cotone. Si abbattè la notte sul Paese con onde che imballavano l’Atore, gli scogli e il porto e sputavano cascate di spuma sulla banchina interna e sulle barche legate alle bitte. La mattina le strade erano già seminate di tegole e coppi di tetti sventrati, Piazza di sopra era invasa dai sassi portati dal mare fino al sagrato della Chiesa e gli scogli esplodevano sotto cavalloni colossali e il Cotone spariva sotto una nebbia di acqua e sale. Intirizzito e intrepido.
Il vento si infilava ululando come un drago nelle strade, portando via come carta vetrata quel che rimaneva dell’intonaco di muri ancora scorticati dal ricordo della Guerra, sbattendo e rimbalzando ad ogni portone sprangato e prendendo forza ad ogni metro in cui correva, impazzito e imprigionato tra le mura delle case,
Non so perché, per quale urgente necessità, la mi’ mamma ci mandò in paese a comprare qualcosa in una bottega che probabilmente aveva serrato i battenti davanti alla tempesta e non so nemmeno perché anche Franchino fosse in giro con quel tempo che ululava per le strade come un branco di lupi affamati. Ma quando arrivammo – muro muro per non farci prendere da qualche tegola – in fondo a via San Francesco e sboccammo in via Garibaldi, dal Vicinato ci arrivò addosso un fiume di vento così potente, quasi liquido, che ci abbracciammo e ci piegammo a terra per non farci portar via e, mentre cercavamo di riparaci nel portone di Enzo l’elettricista, lo vedemmo: Franchino, che aveva appena attraversato via del Malcontenti, fu sospeso dal vento e vibrante come un aquilone, cominciò a volare a più di un metro da terra, con un grido di terrore che non potevamo sentire, scagliato come un proiettile umano di un circo su per il Vicinato, fino a dove c’era il cinema, dove riuscì ad afferrarsi con la forza della disperazione a qualcosa, forse una grondaia, e dove rimase appeso per pochi interminabili secondi come una banderuola scossa dalla bufera. Sembrava un piccolo Buster Keaton, quello delle “Comiche” che ci faceva ridere con le sue stralunate acrobazie sui grattacieli di una lontana città. Ma eravamo terrorizzati.
Il vento tirò il fiato, Franchino si afflosciò al suo pennone provvisorio come una bandiera pallida, corremmo a prenderlo prima che la bufera si ricordasse di noi e scappammo con lui in mezzo, stretti, ingobbiti e inseguiti dal vento, fino alla chiostra di San Francesco dove lo lasciammo, al sicuro dietro il muro della Chiesa, esausto di paura.
Jole non sapeva se crederci o no quando raccontammo di aver visto Franchino volare, ma per prudenza non ci rimandò a comprare quel che fino a prima riteneva indispensabile.
Poi, un giorno che non so, Franchino volò via davvero, portato via dal vento che tutti alla fine ci prende. Ma noi sentimmo solo sussurri e cose che non ci era dato sapere.
Ora una foto lo ha riportato sulle ali della memoria e anche questo è un vento potente che non possiamo far tacere, che scoperchia tetti e vite, come quello che fece volare Franchino nel Vicinato.
Umberto Mazzantini