Il 27 giugno 1896 Pietro Gori è a Baltimora (Maryland). Dal 29 giugno al 12 luglio a Philadelphia (Pennsylvania), dove parlerà nella conferenza “Lavoratori e padroni di fronte alla questione sociale”. Il 13 luglio torna, dopo quasi un anno, a New York. In città aveva fatto amicizia con la giovane Emma Goldman, la combattiva attivista per i diritti dei lavoratori e delle donne, una delle figure più belle dell'anarchismo mondiale. Pietro non poteva non rimanerne colpito: ne ammirò l'oratoria e le dedicò una poesia, definendola sibilla e valorosa.
Nella precedente tappa abbiamo parlato del Pietro Gori drammaturgo. Per quanto riguarda il poeta Pietro Gori, possiamo dire che tale fosse il mestiere artistico in cui si trovò più a suo agio, ma pur sempre restando su discreti risultati e niente più. Peraltro lui stesso, con modestia e l'ironia che lo contraddistingueva, ebbe a definire le sue rime con il curioso epiteto di “versucciettacci”. Si ispirò a Carducci, e si prese la soddisfazione di superarlo, se non in bellezza, nelle vendite: la raccolta “Prigioni e battaglie” arrivò a vendere novemila copie in pochi mesi, un numero di non poco rilievo, allora come oggi, per un paese come l'Italia.
Giudicandolo oggi, vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per il suo teatro. Anche la grande maggioranza della sua produzione poetica è marcata dalla critica sociale e dall'incitamento al riscatto dei poveri. Poesia come forma di messaggio politico, dunque. Non apporta niente di nuovo all'arte, non si discosta dallo stile poetico in voga: si rifà non a caso a Carducci, il poeta monumento dell'epoca, a cui molti, spesso per moda o per convenienza, si uniformano. Per questo il suo nome e le sue opere oggi non vengono neanche citate, se non en passant, dalle storie della letteratura. Possiamo concludere che se Pietro agitava gli animi con la sua oratoria e il suo ideale, dal punto di vista artistico fu quanto di meno rivoluzionario potesse esserci.
Tutti i commenti sui suoi lavori letterari sono concordi nell'affermare la modestia dei componimenti, ma gli riconoscono un'onestà di sentimenti. Ecco il giudizio di Luigi Fabbri: “versi modesti, umili, senza alcuna pretesa che però avevano un fascino di commozione, quando l'autore li cantava accompagnandosi sulla chitarra”. Afferma un anonimo: “il Gori scriveva per il popolo, e non sacrificava mai il pensiero agli estetismi della forma”. E ancora Carlo Molaschi: “L'autore ha ragione: il poemetto dal punto di vista artistico non è perfetto, la metrica non sempre risponde alle regole, ma nelle opere di Pietro Gori non si deve cercare la tecnica, bensì il sentimento”. Più recentemente è stato rilevato da Masini che il suo stile era conforme ai “moduli convenzionali dei versi per album, ispirati spesso a un rugiadoso sentimentalismo”. Mario Pilo, un critico e insegnante che scrisse la prefazione dei “Canti d'esilio”, è tra i pochissimi a esprimere un giudizio lusinghiero: pur non considerandolo un virtuoso, ne apprezza la metrica (“né monotona, né rudimentale, né antiquata”) e lo stile (“i giambi e gli alcaici carducciani, con bella varietà d'atteggiamenti e di moti, pur rimanendo sempre improntata a una grande spontaneità e facilità”).
Tuttavia alcune sue poesie le trasforma in canzoni. E in questo senso è riuscito benissimo. La sua musica infatti è invecchiata bene, arrivando ben viva fino a oggi. È il caso di “Addio a Lugano”, cantata da molti dei grandi della musica italiana: Giorgio Gaber, Milva, Giovanna Marini e Francesco de Gregori, Antonella Ruggiero, solo per citare i maggiori. Composta nel luglio 1895, solo il testo fu scritto da Pietro, mentre la musica fu presa da una canzone popolare intitolata “Addio Sanremo bella”. Inizialmente i versi erano stati strutturati in poesia, col titolo “Il canto degli anarchici espulsi”, sorta di prima stesura della canzone. Solo in seguito verranno adattati alla musica nella versione definitiva, e pubblicati nel “Canzoniere dei ribelli”, del 1904, dando loro la celebrità.
Va anche detto che la musica che accompagna le sue canzoni è molto semplice e orecchiabile, in forma di ballata: in sol, in 6/8, nel caso di “Addio a Lugano”. E sempre adattata a un'aria popolare è “La ballata di Sante Caserio”, eseguita sulla base della canzone toscana “Suona la campana”; mentre “Stornelli d'esilio” (conosciuta anche come “Nostra patria è mondo intero”, dal celeberrimo ritornello, frase molto amata da Pietro) prende la musica da un'altra ballata toscana, “Figlia campagnola”. Nel caso dell'Inno del Primo maggio, Pietro va addirittura ad attingere alla lirica, ovvero il Va' pensiero. Quindi Gori non modernizza o rivoluziona uno stile, anche in questo caso, ma indubbiamente riesce nell'amalgama tra parole e musica, cosa non banale. E rimarrà il suo innegabile successo artistico.
Gli Stati Uniti stavano quindi conoscendo il multiforme talento dell'elbano. Politico, avvocato, sindacalista, polemista, poeta, drammaturgo, esploratore, fotografo, conferenziere, giornalista, cantautore, attore, saggista, criminologo, sociologo, traduttore, divulgatore ante litteram.
In breve, un intellettuale totale.
Come l'Elba non aveva mai avuto, e non avrà in futuro, almeno al suo livello. Ma allora perché l'isola negli ultimi anni lo ha relegato in una nicchia polverosa? Perchè non gli sono stati intitolati centri studi storici o culturali, lui che invece inaugurava spesso e in tutto il mondo circoli di questo genere? (E lo fece anche all'Elba, con il Pro Cultura, presentato al teatro dei Vigilanti, a fine 1908). Perché il bicentenario della nascita di Raffaello Foresi è giustamente celebrato con un ricco calendario culturale (per non parlare delle ricorrenze napoleoniche, dove si aggiunge anche il mefitico fattore turistico/consumistico, che rade al suolo quello culturale), e invece Pietro Gori subisce l'onta di una cancellazione del nome di una piazza?
Risposta (almeno l'unica che mi sono dato in questi anni): perché Pietro Gori non è stato in vita e non sarà mai istituzionalizzabile. Quella stessa istituzionalizzazione da Sartre ritenuta giustamente una iattura per un intellettuale, che perciò gli fece rifiutare il premio Nobel. Quindi, per certi versi detto a malincuore, è stata una vittoria per Pietro.
Nella prima metà di luglio tenne tre conferenze: “I grandi mali e i grandi rimedi”, a Danbury (Connecticut), “Chi siamo e cosa vogliamo”, a Passaic (New Jersey), e “Scienza e religione”, a Paterson (New Jersey). In quest'ultima città, in futuro teatro dell'infamia giudiziaria patita da Rubin Carter (“In Paterson that's just the way things go”, come verrà eternato nel capolavoro “Hurricane” di Bob Dylan), centro d'elezione per molti immigrati italiani anarchici, Pietro collaborò alla “Questione sociale”, giornale in lingua italiana dei libertari. E nella stessa cittadina molto probabilmente incontrò un suo conterraneo e coetaneo, il barbiere capoliverese Nicola Quintavalle. Di cui forse in futuro racconteremo la bella storia.
Andrea Galassi