C’è stato un breve periodo, ormai più di mezzo secolo fa, che Marciana Marina era diventata una specie di nuova Maranello lignea: uno stuolo di bamboli si ingegnava a fare “caretti*” di ogni foggia e dimensione, dal monoposto al minibus, per lanciarsi da discese sterrate e asfaltate, schiantarsi contro muri o uscire di curva o come ci capitò una volta, lanciatici da Timonaia e rotti i freni della carozza multiposto, finire direttamente in mare in punta al Moletto, dopo una vertiginosa picchiata di un chilometro, durante la quale, evidentemente, i nostri angeli custodi si misero alla guida di quel baroccio impazzito, per salvare le nostre e le altrui vite.
I cuscinetti a sfera venivano spacciati come cocaina e le mamme non lasciavano più i carrozzini dei bimbi fuori delle porte perché non ritrovavano più le ruote.
Ottavio fregò addirittura le grosse ruote di un carrozzino vecchio modello, quelle grandi quasi come quelle delle biciclette che sostenevano culle di vimini e tulle grosse come un piccolo guzzo, per applicarle a una carcassa di moto e buttarsi giù da Via San Giovanni. Ma la sua corsa da Icaro meccanico durò poco: si sfracellò dopo pochi metri contro la cantonata della volta di San Francesco, accartocciando le ruote, giganti ma fini, del carrozzino e mettendo fine alla sperimentazione del prototipo di caretto monoposto.
Alla fine le scuderie di caretti erano così tante che qualcuno, Massimo Allori detto Fosmiche, ebbe l’idea di indire una gara di caretti, ma davvero a livello sportivo, tipo le gare di bob che avevamo visto sfrecciare nelle sgranate immagini di qualche olimpiade invernale e che sembravano un missile russo coi pattini. Ma servivano due cose; una strada sicura (insomma, abbastanza e secondo i nostri strani criteri di “sicuro”), lunga e non da pivelli.
Massimo era ed è un terremoto di idee con una parlantina colorita e irrefrenabile e ci convinse che il percorso giusto era la strada, allora ancora sterrata, del Lavacchio. Il percorso di gara andava da dove ora c’è la villa di Trussardi (piana per la spinta del caretto/bob), poi prima curva a gomito con vista (e baratro immacchiato) su Marciana Marina; discesa vertiginosa fino all’acquedotto dell’Acquacalda; due velenosi tornantini a zeta; nuova breve picchiata fino alla chiesina dell’Anime; curva a super-gomito con immissione sulla strada di San Pietro e muretto di contenimento per non cascare nella strada provinciale una trentina di metri sotto e magari rimabalzare fino alla spiaggia della Crocetta; nuova picchiata, le due curve distanziate di Mammaliturchi (una dove c’era il nido di mitragliatrici tedesche e l’altra prima della chiesa di San Pietro, con piazzale per le uscite di chi non ce la faceva a curvare, ma con vista su un altro strapiombo); curva facile prima della casa di Scomato; curva secca finale dove ora c’è il parcheggio di San Pietro (che molti mancavano finendo nella vecchia strada tra i muri che una volta sbucava alla Fornace/Orzaio); arrivo direttamente con attraversamento della strada provinciale, dove ora c’è il brutto parcheggio multipiano.
Durante le prove la curva più pericolosa si rivelò quella della chiesina dell’Anime, dove sul muretto si schiantavano quasi tutti, schigliando i caretti e perdendo pezzi, fil di ferro, chiodi, viti e cuscinetti. Bisognava trovare una protezione e qualcuno, dopo laboriose ricerche trovò un materasso d’erbino, macchiato ma utile per il suo compito. E allora non è che i materassi si trovassero in giro buttati come ora, il materasso era “uscito” da qualche magazzino e qualcuno probabilmente lo piangeva…
La gara era organizzata più o meno così: da quanto mi ricordo il caretto/bob era a due, un pilota e un spingitore che poi saltava al volo sulle tavole del caretto appena presa velocità (io ero l’uomo di fatica perché a guidare ero una pericolosa schiappa), gli equipaggi erano anche, a turno, appena finita la loro discesa, i controllori e il pubblico della gara. La partenza veniva data a tempo con due orologi (credo gli unici che avessimo fra tutti) sincronizzati, uno alla partenza e uno all’arrivo sulla strada provinciale, dove c’erano, per garantire che qualche macchina non travolgesse i bobbisti, due bimbetti che fermavano il traffico quando arrivava l’equipaggio urlante e spesso sbucciato da vecchie e nuove discese. Praticamente una roba da mettere gli organizzatori in galera, se avessimo avuto l’età per essere arrestati.
Alla partenza si presentò tutta la crème della peggiore teppa de La Marina e dei dintorni, alcuni con tanto di guanti, cappellino di cuoio e occhialini da pilota/aviatore (che erano poi occhialini da nuoto o protettivi da operaio rubarti a fratelli e babbi), anche se non sempre con tutto l’equipaggiamento e armamentario addosso. Eravamo, come dire, un po’ spaiati. Caschi nemmeno a parlarne.
Nelle prove polverose lungo la strada sterrata il più veloce sembrava proprio Fosmiche, spericolato come Tazio Nuvolari o Agostini, che nella gara sarebbe partito tra gli ultimi.
Non mi ricordo chi guidasse il mio caretto, ma so’ per certo che la nostra gara fu con poco onore e nessuna gloria. Prudente. Mentre altri si ribaltavano, tagliavano curve, finivano nella macchia, perdevano pezzi di pantaloni, ginocchi e gomiti, facendo polvere e scintille sui sassi della strada e poi sull’asfalto.
Intanto, dalle notizie che arrivavano dalle macchine di passaggio fermate dagli imberbi vigili improvvisati, in paese cominciavano a capire che ne stavamo combinando una delle nostre. Ma grossa.
Poi partì Fosmiche, seguito come una star delle Mille Miglia.
Si buttò in una picchiata spericolata, saltando su sassi e buche, arrotando le curve, veloce come un falco. Invincibile. Ma arrivò così sparato alla curva della Madonnina che la curva a gomito diventò dritta, si impiantò col muso del caretto sul materasso. Il bob si impennò e Fosmiche oltrepassò il muretto e volò nello strapiombo, aprendosi la strada tra mucchi caprini e sassi.
I più lo credettero morto. Ma poi Massimo spuntò, spellato come un gattuccio, da sotto lo sperone di rocce sfrante, più preoccupato di come lo avrebbe accolto la su’ mamma Speranzina a casa (e con Speranzina non si scherzava) che delle ferite al corpo e all’onore di guidatore spericolato.
Il caretto era molto più sotto sfracellato sulla provinciale dopo essersi portato dietro una piccola valanga di sassi e essersi aperto la strada tra cisti marini appicccosi e ginestra spinosa.
Da allora e per un po’ di tempo, finchè durò la nostra memoria di bimbi e fino a quando i pattoni non cominciammo a prenderli con i Ciao e con i vespini, quella diventò la curva di Fosmiche.
L’eliminazione del campione non portò comunque a un vincitore: da quel che mi ricordo, allertati da quella gara di sciagurati, vennero Nello la guardia e i carabinieri e ci mandarono tutti a casa.
Compreso Fosmiche, che a casa proprio non ci sarebbe voluto andare.
E il giorno dopo, a scuola, qualcuno si presentò in classe con qualche livido in più di quello che si era fatto durante la gara e che somigliavano davvero parecchio ai lividi che ti faceva la tu’ mamma quando ti centrava con il manico di una granata o con un altro corpo contundente casalingo.
Umberto Mazzantini