Scrivere di Giovanna è difficilissimo, perché è come scrivere di me, del mio doppio e del mio contrario. Ma lo faccio perché ora, mentre la piango, non posso fare altro.
Non mi ricordo quando ci siamo conosciuti, probabilmente poco dopo il suo approdo all’Elba, nel faro-castello di Focardo appollaiato sugli scogli, giovane sposa di Costantino, il nuovo farista. Forse ci incrociammo perché lei allora era della Lipu e si occupava di rapaci feriti e delfini sfortunati, io ero già di Legambiente.
Probabilmente non ci piacemmo: lei elegante e un po’ snob, figlia unica e amante delle divise, io trasandato e proletario, secondo di 4 figli, sommozzatore che trafficava con tubi che scaricavano liquami in mare. Lei viveva in un castello, io era appena uscito da una casa di due stanze dove fino ai primi anni ‘70 non esisteva l’acqua corrente e il gabinetto. Per un miracolo fatto di storie familiari eravamo tutti e due di sinistra, per una coincidenza eravamo tutti e due ambientalisti.
La nostra amicizia, che sarebbe diventata incrollabile – di quelle che tutto perdonano - cominciò così: da una lontananza che sembrava incolmabile. Io puntuale, lei così sempre in ritardo che una volta si presentò a un congresso di Legambiente - ancora in Salita Napoleone a Portoferraio - con 4 ore di ritardo e, trovatici che scendevamo le scale dopo aver discusso del mondo ed eletto il nuovo direttivo, ci disse candida come un giglio e con il birignao saccente che assumeva quando voleva nascondere un torto: «Come, ve ne andate di già?».
Giovanna era magra magra, non metteva carne addosso – cosa che io so fare molto bene – e dopo la morte di Costantino diventò quasi trasparente, sembrava che il vento che soffia a Focardo potesse portarsi via quella donna piuma, ma Giovanna volava col vento, era una piuma d’acciaio, sballottata dall’emicrania e dalle malattie che si andava a cercare, insonne, ma indistruttibile,
E Giovanna era a volte felice in quell’eremo fatto di mura antiche che circondano una casa bianca bersagliata dai fulmini, prima con i sui vecchi cani e poi circondata da gatti e gabbiani, dalle rondini dalla gola rossa che nidificano sul forte, dal falco pellegrino che abita altero la garitta sciancata a picco sul mare, dove secoli fa gli spagnoli facevano la guardia al loro piccolo dominio di Porto Longone, di fronte a Forte San Giacomo che poi sarebbe diventato un carcere dove gli uomini sognano la libertà perduta, guardando l’atro faro che illumina la notte e il mare nero di Mola.
Per Giovanna quel forte era la salvezza e la maledizione, luogo infestato di peripezie e di guasti senza perché, di avventure che narrava – con un filo di ironica esagerazione (ma alla fine credendoci anche lei) - su Facebook, incassando i miei increduli commenti e l’invito ripetuto ad andarsi a fare benedire.
Sì, perché, Giovanna era una gatta che tirava fuori zanne e artigli insospettabili non appena qualcuno la criticava ma che, come mi disse Costantino una volta, io e Sergio Rossi eravamo gli unici che potevano maltrattare, contraddire, dirle brutalmente che stava sbagliando di grosso. Un permesso datoci tacitamente che a volte usava come terapia, tenendoci ore al telefono a discutere di un’avventura sbagliata nella quale si era buttata, o di una persona della quale si era fidata e che l’aveva fregata, non ringraziandola nemmeno per i soldi prestati e mai ritornati.
Giovanna, malfidata con chi non le piaceva e ingenua fino all’incredibile con tutti gli altri, era la datrice di lavoro di una domestica tamil che non ha mai fatto le pulizie a Forte Focardo, ma alla quale ha pagato per anni i contributi perché non venisse rispedita nel Kerala. Giovanna non capiva più niente non appena si discuteva di uno dei suoi bimbi di scuola – per lei tutti perfetti e intelligentissimi, anche quelli che a un primo sguardo mi ricordavano le teppe con le quali facevo ghenga da piccolo - ed essere stato un suo alunno deve essere stata un’esperienza davvero fantastica: una maestra che cominciava sempre dal programma ministeriale e lo abbandonava quasi subito, scivolando in racconti, fiabe, storie, e creava un modo fantastico che riempiva la classe di fantasia, animali, draghi unicorni e divagazioni sul tema e poi su uno cento e mille temi. Giovanna era una brava maestra, adorata dai suoi bimbi.
Giovanna era chiacchierona e cangiante come il mare che parla incessantemente, a volte calmo, a volte incazzato e spumante schiuma e salmastro, sugli scogli neri di Focardo, insonne e irrequieto come lei, e che tutto a un tratto si placa sotto la luna piena, increspato solo da un brivido costante di vento che spinge onde tutte uguali nella striscia d’argento tra l’acqua e il cielo. E dorme, insieme ai delfini, ai gatti sui letti e i divani e alle rondini nei nidi e al falco sulle mura.
Ma Giovanna era forse in realtà il passero solitario, bellissimo e abbagliante di blu, che un giorno scelse Forte Focardo per fare la sua altezzosa comparsa. Un folletto elettrico che guardava il mare e il golfo, che vigilava sul mondo e sul tempo, eremita volontario come lei, in un posto fuori dal mondo dove la notte è scandita dai giri luminosi del faro.
E ora che il passero blu è rimasto padrone del Forte, forse una piccola incarnazione ancora terrena della castellana bionda, spero proprio che il Dio e il Gesù in cui Giovanna credeva le abbiano riservato una palla di vetro, di quelle che scuotendole casca la neve e che Giovanna collezionava. Una palla di neve con dentro Forte Focardo e un paradiso dei gatti e dei cani neri. Un castello sulle nuvole dove riceverà, con il servito buono, i cucchiaini d’argento e i bicchieri di Murano gli amici e gli amori che ha perso, in attesa che Lola, la sua gatta gemella adorata, tra mille anni risalga a balzi l’arcobaleno e torni a fare la regina nera, affusolata e scontrosa tra le sue braccia. Quando sarà la mia ora, se mi daranno il permesso, andrò a trovarla e chiacchiereremo per l’eternità.
Umberto
(foto di Paolo Maggi)