Cari lettori
Spesso si ragiona intorno al “diverso sentire” che abbiamo socialmente maturato intorno alle principali festività proposteci dal calendario e allo stravolgimento dei loro originari significati.
Negli anni le festività natalizie sono state progressivamente sempre più la festa del consumo, il periodo della gaiezza forzata indotta dalla necessità collettiva di dimostrare opulenza, così come la Pasqua diventava sempre più tempo del rito dello sciamare collettivo, verso mete più o meno esotiche, di un’italietta che pareva esorcizzare le sue antiche miserie, vivendo “alla grande”, ben al di sopra dei suoi mezzi.
Il combinato disposto (si direbbe oggi) della caduta della spiritualità religiosa come laica e della crisi economica, dopo un ventennio di esaltazione delle vacuità e delle vanità, ha lasciato sul campo un paese prostrato e frustrato, che subisce, pressoché in silenzio, le “cure” neoliberiste degli stessi signori della moneta che originarono la crisi, inventandosi un’economia sganciata dalla produzione dei beni reali ed ancorata a qualsiasi tipo di speculazione.
E così le feste che una volta erano vissute come isole temporali necessarie per sopportare il sacrificio costante, e talvolta durissimo, dei giorni comuni, sono diventate tempi di riflessione amara sul non essere e non avere. Tempi di pensieri sul non lavoro per troppi, sull’incertezza del futuro per i più.
Ci è rimasto il 1° Maggio, ci è rimasta quella che Pietro Gori chiamava “dolce Pasqua dei Lavoratori”.
Resiste il 1° Maggio forse perché è sempre stato simbolo di resistenza, di alternativa, di diversità festiva. Resiste forse per la sua collocazione proprio al centro della stagione fiorita, quella nella quale in natura si legge “la gran varïazion d'i freschi mai” come Dante scriveva, ed il tempo dei fiori, che prelude a quello dei frutti , deve, necessariamente, essere la il tempo della speranza.
Ce la caveremo, sarà dura ma ce la caveremo anche stavolta, nonostante un governo ragioniero, il bollettino dei tagli giornaliero, le lacrime di coccodrillo della Fornero, le macerie che ci ha lasciato l’avventuriero.
Ce la caveremo nonostante un parco-partiti ed un parco-politici che, mediamente, per dirla con un’espressione cara a nostra madre “Fa schifo alla Società del Lezzo”.
Ce la caveremo con lo spirito del 1° Maggio, con il suo parlare di solidarietà, di fratellanza (che vuol dire prima di tutto attenzione ai bisogni degli ultimi), senza demagoghi populisti (abbiamo finito appena di ciucciarcene uno) di destra o di sedicente sinistra, ce la caveremo se riusciremo a costruire strumenti di democrazia partecipata, senza concessioni al ribellismo generico, senza scivolare nel localismo idiota che è solo egoismo gonfiato. Ce la caveremo se anche questo Primo Maggio riusciremo a cantare quello che fu scritto più di cento anni fa: “… nostra Patria è il mondo intero – nostra legge è la libertà”.
Ce la caveremo ripromettendoci oggi, nella Festa del Lavoro, prima di ogni altra cosa, di lavorare ogni giorno perché tutti abbiano un Lavoro e con esso piena dignità.
Buon Primo Maggio
sergio rossi