Davanti alle mie finestre (ho scelto all’epoca questo appartamento non casualmente) ci sono tre enormi pini, sicuramente tra i più anziani in servizio permanente effettivo a Portoferraio. Uno, il maggiore è di una struggente bellezza e perfezione, l’ha ben conosciuto mio padre che in queste valli c’era già 111 anni fa, ed in questi campi veniva a zappare. All’ombra gettata dalle sue estesissime braccia, nelle ore più calde, sul nostro piccolo terrazzo Patrizia leggeva i suoi romanzi, hanno giocato con le bambole le mie figlie, ed ora Frida, che incomincia appena a parlare, ci si bea, sperimentanto gli odori della menta e del basilico, strappando le foglie con le sue manine, annusando felice e chiamando Manu per proporle la sniffata.
Quattro generazioni ha già visto passare questo gigante tranquillo e chissà quante ancora potrà vederne se lo lasceranno invecchiare in pace.
Stamani mi è venuto da pensare che, nonostante quella pianta sia tecnicamente proprietà altrui, la sento anche tanto mia che se a qualcuno (padrone compreso) venisse la sciagurata idea di tagliarla, di ucciderla, mi trasformerei da quel pacifico signore che ormai sono diventato in un anziano furibondo e cattivo, perché, al di là delle leggi e di quanto altro volete mettere, l’ombra di un pino, la sua maestosa bellezza, il suo esistere di vivente tra i viventi, appartengono a tutti.
Ho sentito accusare i pini di ogni nefandezza, mi ricordo di aver letto addirittura dei “pini omicidi di San Giovanni” come se le piante, in luogo di essere, ogni tanto, punto di impatto di folli corse dello stupido di turno che guida come un cane, spesso pieno (quando va bene) di alcol, fossero loro a traversare a tradimento la strada.
Ed ancora alle nefaste essenze arboree si rimprovera di sconnettere con le loro radici i piani delle strade (evitando di considerare quanto gli alberi sono utili per evitare i collassi dei corpi stradali, il crearsi di buche e frane) fingendo di non sapere che esistono tecniche per “rasare” le radici e rettificare opportunamente i manti, senza tenere in conto, se proprio vogliamo parlare di usura viaria, il danno medio alle carreggiate, in particolare cittadine, sottoposte a carichi abnormi, il consumo del manto che determina una “innocua” signora portando i suoi sessanta chili di culo sopra un SUV da due tonnellate a comprare due etti di prosciutto.
Ma la “cattiveria” dei pini non finisce qui, perché l’odore indubbiamente gradevole che spandono (che tra un po’ anche Frida, da aromatiera in erba, incomincerà a “classificare”) è legato al precipitare delle resine che “crimine dei crimini” si appiccicano sulle nostre preziose automobili in sosta, i nostri “status symbol” l’estensione artificiale e trionfante dei nostri corpi.
Le auto, ancora una volta loro, la battaglia è tra loro e i pini, ma a confrontarsi sono anche due filosofie e pure due concezioni estetiche.
Le escrescenze di qualsiasi genere non sono più di moda, sono retrò, il livellante, omogeneizzante cemento si spande e liscia i profili della terra, la natura alla quale è ancora concesso di manifestarsi, purché irreggimentata, nei contesti urbani, deve esprimersi in siepi ed aiuole geometrizzate, in pratini all’inglese, in stitici alberelli in fila, uguali ordinati e coperti come soldatini.
E l’umanità che si aggira in tanto squallore si omologhi perfino nei corpi: i maschi sfoggino in pubblico orgogliose teste rasate e toraci resi glabri da dolorose cerette, le signore in privato o dove loro torna meglio, ostentino trionfanti pince desertificate pre-puberali.
Avanti così verso un mondo liscio, asettico e depilato, con tante auto e pochi pini.
Io sto dalla parte dei pinaioli, da quella dei segaioli stateci voi, se vi aggrada .