Due o tre cose che so della guerra
Il mi’ babbo Veleno – che un altr’anno avrebbe avuto cent’anni - la guerra l’ha fatta, è stato a Cassino, nascosto come un topo in un convento fortezza sbriciolatosi sotto le bombe alleate. E’ scappato, l’hanno preso i partigiani, è scappato ancora… è stato di nuovo arruolato come mitragliere, ha disertato quando francesi e inglesi (senegalesi e marocchini) hanno liberato l’Elba seminando nuova disperazione, violenze, dolori… perché la guerra finisce ma è la più crudele delle levatrici della Pace.
E a volte la pace effimera di guerre insensate figlia nuovi infiniti dolori, odi che non si placano, ingiustizie che diventano giustizie, a volte il dolore e il pianto umiliato di molti – i perdenti - viene nascosto, taciuto e il dolore di pochi – i vincenti – diventa intollerabile agli occhi del mondo.
E’ quel che succede da più di 70 anni nella Palestina dove nacque il portatore di pace e di spada, il pescatore di anime che camminava sul mare dolce di Tiberiade, è quel che succede da ancora più tempo nell’Afghanistan inconquistato che abbiamo riconsegnato ai talebani dopo 20 anni di una guerra crudele, insensata, che ha sperperato vite e migliaia di miliardi di dollari in armi in un Paese affamato e arso, fatto polvere dal cambiamento climatico, da dove scappano profughi che si mischiano a profughi di altre guerre mediorientali e africane, divisi alle frontiere polacche come il grano dal loglio, occhi neri e pelle scura e olivastra da una parte, occhi celesti e pelle bianca dall’altra… Occhi con la stessa disperata paura, pelle sotto la quale scorre lo stesso rosso sangue con il quale l’umanità indifesa ha concimato i campi di battaglia di sabbia o di neve, di foreste soffocanti vietnamite e congolesi o di palazzoni sovietici di Kiev bombardati per ordine di un ex agente del KGB, oppure la case russe del Donbass, da dove centinaia di migliaia di bambini e di donne, con la stessa pelle bianca e gli stessi occhi chiari, sono profughi dall’altra parte di un confine che si sono mangiato i cingoli dei carrarmati.
E’ quel che succede da decenni nelle nostre ex colonie fasciste, dimenticate come facciamo noi italiani che pure abbiamo giorni del ricordo e della memoria.
Quel che succede nella ex colonia e poi protettorato italiano della Somalia, dove Andreotti nel 1969 mise al comando con un colpo di stato un ex carabiniere di Firenze, Siad Barre, che si alleò coi sovietici, diventò grande amico di Bettino Craxi e poi venne defenestrato nel 1991, dopo due anni di stragi del suo stesso popolo che l’Italia e il mondo stettero a guardare. La Somalia, dove da 31 anni c’è un’altra guerra civile e tribale che abbiamo cercato maldestramente di sedare inutilmente mandando i paracadutisti della Folgore a fare una nuova guerra coloniale insieme agli americani. Un Afghanistan italiano, un Paese fantasma nel quale milizie jihadiste e governi fantoccio si contendono un deserto di sterpi, capre, pesci del mare, rotte di pirati e discariche di rifiuti tossici e radioattivi made in Italy. Una discarica della nostra storia e della nostra coscienza.
Attaccata alla Somalia frantumata, a nord, c’è l’atro pezzo dell’impero fascista: l’Abissinia che conquistammo bombardando villaggi con l’iprite, sterminando con le mitragliatrici dal cielo e da terra un esercito cristiano armato di zagaglie, cannoneggiando città, facendo mattanze di civili ad Addis Abeba e di monaci nelle loro chiese rupestri, a migliaia, per rappresaglia. L’Etiopia dove ora a Macallè, la capitale del Tigray - dalla quale prese il suo soprannome che lo ha accompagnato fino alla sua morte nel manicomio di Volterra il mi’ zio Oreste - si muore sotto le bombe etiopi ed eritree. L’Eritrea fascista anche nei palazzi del potere, dove si beve il cappuccino e si va al cinematografo, dove l’Italiano è la lingua dell’élite di una delle dittature più feroci e spietate del mondo, che ha trasformato la lotta di liberazione socialista in uno Stato-prigione alleato dell’occidente e delle monarchie assolute del Golfo, in guerra e prigionia che durano dal 1991. In profughi che affogano al largo di Lampedusa.
E poi c’è la Libia, lo scatolone di sabbia che strappammo alla Turchia insieme al Dodecaneso, le isole greche dove nel 1991 Gabriele Salvatores girò uno dei più bei film di pace di sempre: Mediterraneo. La Libia, conquistata col ferro e col fuoco, con decine di migliaia di impiccati, campi di concentramento nel deserto, profughi, bombardamenti, torture, violenze e dolore… La Libia di Muʿammar Muḥammad Abū Minyar ʿAbd al-Salām Aisha Gheddafi, salito al potere nel 1969 con un colpo di Stato militare quasi incruento che scacciò i coloni italiani ma lasciò intatti i nostri interessi petroliferi. Gheddafi amico di Silvio Berlusconi che gli preparava attendamenti beduini e finte conversioni islamiche di legioni di belle donne nel centro di Roma, Gheddafi tradito, bombardato da aerei Nato e italiani che obbedivano ai francesi e agli inglesi, ucciso da milizie islamiste nel 2011, Una morte che sembrava la fine crudele di una dittatura e che invece si è trasformata in 11 anni di sangue, dolore, profughi, decapitazioni, torture, prigionie, rapimenti, violenze, commercio di carne umana che ancora durano. Quello che qualcuno chiama ancora porto sicuro. Un cimitero sottomarino e nel deserto di morti senza nome, dove i becchini sono aguzzini finanziati e armati dall’Italia che pilotano moderne vedette italiane. In cambio di petrolio e gas e di profughi tenuti nei lager, affondati sui gommoni, venduti come ostaggi. La stessa disperazione che guardiamo atterriti in televisione al confine ucraino con l’Europa, solo che in Libia le lacrime scorrono su gote scure, sulla pelle bruciata dal sole e dai gas dei siriani e degli irakeni. L’Iraq, dove abbiamo partecipato come fedeli alleati a una guerra insensata che dura ancora, dove abbiamo mandato a morire soldati che poi abbiamo chiamato eroi per non vergognarci delle nostre bugie. Dell’ennesima guerra per il petrolio ammantata da guerra democratica, giustificata di fronte all’Onu con false prove. Come Putin qualsiasi.
La mi’ mamma Jole, che la guerra l’ha vista da ragazzina, non sapeva niente del mondo, non avrebbe saputo indicare su una cartina geografica la Libia, la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia abissina che dette il nome a suo fratello Macallè, figuriamoci l’Ucraina. Ma al fascismo Jole non ha mai perdonato quello: la guerra, la fame, le sirene nella notte di Roma, la miseria degli elbani, il terrore dei romani, il dolore del lutto. E poi i nomi degli uomini morti sulle lapidi di marmo, come una riparazione di un torto troppo grosso per essere riparato, troppo facile da riparare così, con una corona di fiori e un nastro tricolore.
Se fosse viva la mi’ mamma piangerebbe per i morti in Ucraina, piangerebbe soprattutto per le donne e i bimbi che piangono. Se fosse vivo il mi’ babbo starebbe con il soldato russo prigioniero che piange, troppo piccolo per la sua uniforme di guerriero, spaesato come lo era lui sotto le bombe di Cassino, o il mi’ zio Lampo nella sua nave che affondò centrata da una bomba alleata in un porto dell’Istria.
Ma il mi’ babbo e il mi’ zio non parlavano quasi mai della loro guerra: era un dolore represso, una vergogna da scordare, qualcosa da non far sapere ai bimbi, da nascondere ai ragazzi. Sangue e merda. materia infetta.
Io so molte cose della guerra di oggi, conosco i torti e le ragioni – almeno quelle che ci è dato conoscere – conosco la storia che sprofonda in un medioevo mitico di vichinghi erranti e croci cristiane, ortodosse e uniate. Conosco questo groviglio di storia che arriva a Lenin, Stalin, Kruscev e Gorbaciov, all’ammainarsi della bandiera rossa con la falce e martello e la stella, a Putin e alla rivolta di Maidan dove la bandiera giallo-azzurra dell’indipendenza ucraina si mescolava con le svastiche e i lugubri simboli del passato fascista. Conosco le radici del rancore e della propaganda, delle bugie di guerra, conosco l’origine di questo grumo di sangue e di polvere da sparo rappreso sul quale torreggiano minacciose le centrali nucleari sovietiche come quella esplosa a Chernobyl in un tragico aprile del 1986…
Ma tutto questo scompare di fronte alla disperazione delle donne e dei bimbi, alle lacrime dei vecchi che guardano atterriti e inermi la loro casa sventrata, la loro vita faticosa sparsa nel fango, nella neve sporca, come una cosa che non conta nulla.
Niente può giustificare questo dolore, questa umiliazione, queste lacrime che si chiamano guerra. Niente, se non la fine della guerra, del dolore e delle lacrime. La guarigione è nella geopolitica della pace che gridano dalle piazze i pacifisti inermi, un Papa ferito e solitario, i disertori della violenza. Che griderebbero, se potessero ritornare, i soldati morti invano per regimi e Stati che non esistono più, per un onore che era di altri e che altri hanno disonorato nel sangue.
Che griderebbero, se fossero vivi Veleno, Jole, Macallè, perché alla fine, ai confini che tagliano le nazioni come sciabole e ghigliottine, c’è una parte con cui stare sempre: l’umanità che soffre. Restare umani.
Umberto Mazzantini