L’immagine terribile, che mi torna a mente da due giorni, è quella di un contenitore di umanità abbandonato, riverso a terra, svuotato da quella somma di emozioni, sensazioni che chiamiamo vita. Un’immagine cattiva, la fotografia dell’epilogo di una tragedia individuale, consumatasi nelle ore in cui, a poche centinaia di metri, restavano accese le luci del baraccone, nella notte vacanziera in cui scorrono torrenti di alcol, e si fuma e si pippa coca a tutta randa, e si fa sesso, forzando il manifestarsi della serotonina da effetti chimici biologici e/o artificiali, rincorrendo affannosamente una effimera gioia di plastica, da persone vacue come maschere di cartapesta, nel tempo di un posticcio edonismo calendariale, stagionale, un “chi vuol esser lieto sia” da consumarsi velocemente, prima che le luci tornino a spengersi, l’Isola si svuoti, le finestre serrate vadano in maggioranza, i “ridenti paesi” divengano fantasmi di loro stessi, e molti altri si ritrovino a fare i conti con una solitudine profonda quanto un mare di notte.
Kiki, che aveva perso la madre molto presto, chiamava “mamma” la mia carissima amica Ornella, che me l’ha ricordata come una dolce e fragile anima, troppo sensibile per reggere da sola le comuni o straordinarie ferite dell’esistere, troppo esile per reggere alle raffiche di vento e le ondate che battono questo scoglio, per resistere sul quale, senza essere risucchiati dai gorghi neri della cinica indifferenza sociale, talvolta occorre attaccarsi con la forza e la determinazione di una “lampada”.
Cari compaesani, quella immagine di un povero contenitore di umanità di 43 anni abbandonato dalla vita, se è la testimonianza di un arrendersi prematuro, definitivo, è anche il sigillo su un’altra sconfitta di cui (con gradi diversi di responsabilità, ma in fondo, nessuno escluso) tutti portiamo responsabilità.
Tutte le volte (abnormemente tante in questa isola) che qualcuno decide di andarsene innaturalmente e presto, dovremmo compiere un esame di coscienza collettivo. e domandarci cosa abbiamo fatto per evitarlo, quante cure, quanta solidarietà, quanto “affetto sociale” quanta vicinanza umana abbiamo dedicato a quell’essere.
E’ probabile che ci servirebbe ad essere un po’ meno egoisti, a costruire nel tempo un popolo più attento ai bisogni degli ultimi, alle necessità individuali di chi, per continuare a darci la sua ricchezza, deve essere aiutato.