Quando giocavamo al campo polveroso e sassoso della Soda, o in piazza di Sopra e di Sotto, con i cappotti arrotolati a terra per fare i pali e una traversa immaginaria sulla testa, io giocavo in quelle porte ipotetiche, ero il portiere, basso (e lo sono rimasto), ma bravo, agile come un gatto (e non lo sono rimasto). E non ero il portiere di scarto, quello che alla conta per fare le squadre si sceglie all’ultimo perché non sa giocare: a me e Nobio Sacchi – se c‘eravamo entrambi - ci sceglievano subito. Altrimenti sceglievano subito a me o lui e nell’altra porta mettevano una vittima sacrificale.
Io non solo credevo di essere bravo, ma volevo essere Yascing, che poi in realtà si chiamava Lev Ivanovič Jašin, il portiere imbattibile dell’Unione Sovietica e della Dinamo Mosca, pallone d’oro nel 1963. E noi ce lo immaginavamo quell’omone colossale, il ragno nero, che parava il pallone d’oro calciato da Gianni Rivera che era arrivato secondo e gli rodeva parecchio, perché Rivera era democristiano e Yascing comunista.
Il mio modello era quindi quello che poi è stato nominato il portiere più forte di tutti i tempi e che era più o meno 30 centimetri più alto di quanto sono ora e quasi il doppio di quanto ero allora. Ma i sogni dei bimbi sono inarrivabili, spesso anche per loro. Per questo li dimentichiamo.
Insomma, mentre il compagno Yascing, vinceva olimpiadi, campionato europeo e coppe, io mi spellavo i ginocchi e le gambe in tuffi nella polvere e sull’asfalto sbrecciato delle piazze marinesi. Mentre lui riceveva onori e medaglie, io e gli altri aspiranti grandi calciatori, scappavamo inseguiti da Nello la guardia con le vecchiette che facevano il tifo per lui.
Ma quel che non sapevo è che non sarei stato mai Yascing e nemmeno un bravo portiere, perché ero, come dire, un po’ cecato. Infatti io, quando i tiri erano forti, non vedevo il pallone arrivare, lo intuivo, lo vedevo partire e sapevo dove sarebbe andato, ero una specie di pipistrello: paravo alla cieca. Però paravo.
Cominciai ad accorgermi che qualcosa non funzionava alle Medie, quando venne a vederci giocare un giovanissimo professore simpatico di Rio Marina – non mi ricordo il nome – che ci aveva preso a cuore e che sembrava ancora uno di noi. Quando finì la partita nella quale avevamo vinto e io avevo parato quasi tutto, mi disse: «Te non sei un portiere, hai altre qualità che dovresti coltivare, ma non sai parare. E’ solo istinto e culo».
Solo qualche anno dopo scoprii perché i palloni li intuivo ma non li vedevo: quello che per me era vedere normalmente, strizzando gli occhi quando c’era troppa luce e per leggere, ad esempio, le targhe delle macchine che allora erano nere con le lettere bianche, non era normale. E parecchi anni dopo, quando mi negarono un brevetto da sommozzatore perché avevo problemi di vista, capii che dipendeva da una malformazione del nervo ottico. E poi capii anche perché la gente diceva che non la salutavo: semplicemente la vedevo un po’ sfocata, non la riconoscevo. Ma per me – proprio come per i gatti, i cani e i cinghiali e gli altri animali che non vedono come noi - era così che si vedeva il mondo e credevo che tutti gli altri vedessero come me. Poi la cosa con l’età si è ulteriormente aggravata, ma questo con Yascing non c’entra nulla.
Quando poi passai a giocare con le squadre giovanili capii che il portiere non era il mio ruolo: con le cannonate e la palla di cuoio l’agilità e l’intuito non bastavano più e prendevo gol come un mediocre portiere di infima categoria, di quelli che non vengono scelti alla conta. Fu allora che cominciai a correre, mentre Nobio continuava a fare il portiere perché lo sapeva fare davvero.
Ma la fama da giovane gatto mi restò per un po’ attaccata e continuarono a chiamarmi per qualche partita quando mancava il portiere buono. Ero una riserva di riserva, ma ormai mi interessavo di altro.
La mia già defunta carriera da Yascing finì definitivamente un giorno d’estate al campo di sportivo di Ruotone che era ancora in terra e polvere. Era il primo allenamento per uno dei primi tornei di calcetto in piazza di Sopra e io mi misi in porta con guanti e tutto quello che non avevo quando volevo essere Yascing. Al primo tiro centrale cercai di prendere la palla e mi incalcai il dito medio in una maniera così stolta e dolorosa che mi sembrava di avere una salsiccia alla brace piantata in mezzo alle altre dita della mano dolorante.
Per la squadra quell’infortunio definitivo fu una benedizione venuta dal cielo. Cercarono subito un altro portiere e lo trovarono: Pietro Lupi Pitturino, alto, lungo allampanato come l’ex portiere del Milan Cudicini, ma che parò l’imparabile e portò una squadra non proprio di campioni in finale. Alla fine tutti lo chiamavano il Ragno Nero, che era proprio il soprannome di Lev Ivanovič Jašin che allora non giocava già più e lucidava nella sua isba le medaglie con la falce e martello e la faccia di Lenin che gli aveva attaccato al petto per meriti sportivi un Paese che sarebbe scomparso in meno di 20 anni.
Il nuovo Yascing non ero io, ma per qualche notte in una piazza di Marciana Marina, a mille miglia da Mosca, lo era diventato, per gioco e bravura, Pietro il Pitturino.
Umberto Mazzantini