RAI 3 ha inaugurato l’anno con un bellissimo documentario (recuperabile da RaiPlay 01.01.2024 ore 21,20) su Giorgio Gaber, realizzato anche con il contributo della Fondazione che porta il suo nome, in occasione del ventesimo anniversario della scomparsa. Per chi, come me, ha l’età ‘giusta’ per ‘esserci stato’ è un’emozione grande, a risentire temi e canzoni che hanno accompagnato un pezzo della nostra storia e della storia di un’epoca; e a vedere proiettate nel presente straordinarie e attualissime riflessioni: perché Gaber -e il suo alter ego ‘paroliere’ Sandro Luporini - è riuscito a attraversare una carriera fortunata senza mai perdere “modernità”, senza rischiare di ‘appartenere’ a un momento, a un genere artistico, senza restare prigioniero di un’immagine. Certo si è trovato in un momento e in una compagnia che vedeva agire gente come Fo, Jannacci, Cochi e Renato, Endrigo, Celentano, Mina, in una città come Milano che era allora davvero l’antitesi della Provincia.
Musicista raffinato, perfino romantico, nei suoi esordi, non è mai stato banale; e ha saputo affermarsi con gentilezza in un mondo che lo percepiva comunque come ‘strano’. A cominciare dal fatto che non si è mai ‘vestito’ o travestito con panni non suoi -come del resto i ‘colleghi’ ricordati, sempre ‘formali’ (a parte Celentano)-, per non confondere gli interlocutori e usare le parole e il corpo più che l’abito. E Gaber ha continuato così anche quando ha lasciato la televisione per impegnarsi nel Teatro-Canzone, fino agli ultimi suoi lavori, usando solo la voce accompagnata da una mimica potente in una scenografia praticamente vuota.
Da subito il suo racconto e la sua musica stavano nella realtà -il Giambellino del Cerutti, Porta Romana (di allora), balere e bar di periferia dove si beveva Trani (vinuccio di Puglia) a gogò-, assai più che nella finzione, che ha bisogno della ‘scena’. Non una scelta polemica, in un ambiente -nazionale e non solo- nel quale le star del Rock gareggiavano nel trovare ‘costumi’ fantasiosi; però una scelta. Divenuto rapidamente celebre e anche popolare grazie alla televisione (anch’essa ai suoi esordi), già nel 1964 si permetteva il lusso di portare in video “Addio Lugano bella” -a noi tanto cara- con un coro e gli strumenti di cinque chitarristi; e tre anni dopo presentava -insieme a Caterina Caselli- al pubblico televisivo due altri personaggi non certo convenzionali, come Guccini e Battiato. Senza interrompere la frequentazione dei jazzisti -con i quali era in qualche modo nato-, e degli artisti rock e pop del momento.
Ancora la realtà -la tragica storia degli “anni di piombo”- segna una svolta nella sua vita e nella sua arte. Nel ’70 canta (con Mina) “Il signor G”: la prima grande svolta. Ma la televisione -ormai cresciuta e diventata “azienda”- ha le sue regole, e il nuovo Gaber non va più bene: “La televisione è violenta tanto per chi la fa che per chi l’ascolta”, dice. “Debbo fare per forza il pagliaccio: la verità non piace”. Lascia la televisione e nasce il Teatro-canzone.
E arriva Sandro Luporini, pittore, scrittore, poeta; e il mondo cui appartiene. Incontro casuale, curiosità, cultura, condivisione. La realtà nuova e prepotente lo chiama a schierarsi. “Io ero molto comunista -racconta Luporini-. Lui un po’ meno. Era più ‘piccolo borghese’, ma con la capacità di capire”. Gaber racconta un episodio che definisce significativo: un giorno, in pieno “‘68”, andò alla Statale di Milano a prendere sua moglie -Ombretta Colli, che era iscritta a quella Università- con una macchina molto vistosa, come appunto usavano allora le star televisive; ma nessuno gli dette peso, nessuno contestò “questo modo di presentarmi in maniera molto consumistica”, e anzi “mi sembrò veramente autentico il fatto che nessuno pareva desiderare una macchina di questo tipo, ma in realtà tutti volevano essere proprio diversi nel consumo e diversi quindi nel loro aspetto esistenziale”. E visse quel momento come molto importante: “mi ha cambiato, cioè mi ha fatto essere un'altra persona. E di questo sono grato al ‘68”. Capacità di capire, come dice Luporini. Capire la realtà nuova, nella quale le idee non sono totem, nel bene e nel male. Poi, quando lo diventano, sono pericolose: “Non c’è niente di più volgare delle idee. Di più ridicolo delle idee tenute appiccicate in bocca oppure nella testa”. Così Gaber comincia a riesaminare il deposito ideologico progressivamente sedimentatosi da quando le idee hanno progressivamente perduto il loro rapporto essenziale con la vita. “Far finta di essere sani”, “La Comune”; ma ancora la fiducia nella possibilità di correggere il tiro senza perdere il senso del valore di ciò che è stato: “C’è solo la strada”. “Libertà è partecipazione”: quasi un urlo di richiamo. “Partecipazione” non piaceva né a Luporini né a Gaber, perché è concetto equivoco: “forse sarebbe stato più giusto dire che la libertà è uno spazio di incidenza…, però metricamente avrebbe funzionato molto di meno, non sarebbe venuto benissimo”; qualcosa come radicamento nella realtà (forse quell’“I care” preso a motto, in ben altro contesto, dai ragazzi di Barbiana).
Anni difficili. Il nemico di sempre cambia volto e si ripresenta. I “ragionamenti” dei quali si era nutrita la grande rottura del “‘68” diventano “idee” e si cristallizzano in slogan: e il conformismo -“tutto è politica”- cancella la concretezza dell’individuo che elabora il pensiero e progetta l’azione -“Ci ragiono e canto” titolava appunto uno spettacolo celebre di Dario Fo- e insieme l’autenticità del sentire e del vivere pulsioni e desideri, lasciando il posto alla “rappresentazione” di sé -il narcisismo dagli anni ‘Ottanta in avanti, l’individualismo della competizione e della performance, il modello americano (anche nella Sinistra).
E allora una nuova correzione di rotta per cercare di mantenere l’unità dell’individuo: “Polli d’allevamento”, “Quando è Moda è Moda”, “Io, se fossi Dio”. Vent’anni di solitudine, fino alla fine, sempre più rigoroso, su tutto -il “personale”, il “pubblico”, la libertà, l’amore, la fedeltà- sempre con uno sguardo nuovo, duro, senza indulgenza. E ogni canzone diventa un discorso personale rivolto direttamente all’ascoltatore, e diventa contraddizione e invettiva, e resta tuttavia dialogo. Come da sempre è il teatro, e la musica, e l’arte.
Solo chi è prevenuto, “ideologicamente” prevenuto, non lo capisce. Il Gaber di “Destra-Sinistra” (1994), -riproposta, non per niente, nell’album “La mia generazione ha perso “(2001)- non è un “convertito”, un transfuga, un disertore. Ancora nel 1996, in “Qualcuno era comunista”, dice en passant: “Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice, solo se lo erano anche gli altri”, quasi un nuovo Manifesto. E in uno degli ultimi spettacoli confessava: “Io, devo dire, fisicamente non ce la faccio a essere di Destra, ma fisicamente: sono sempre stato di Sinistra… Però, vi assicuro, una cosa la devo dire, la Destra, la logica del profitto, tutte quelle cose le conosco… Ma come mi fanno incazzare quelli di Sinistra”….
La conclusione del suo percorso la possiamo immaginare affidata a una delle ultime sue canzoni, “Verso il Terzo Millennio”, scritta sempre con Luporini nel 2001, due anni prima della sua scomparsa. Lettura attentissima e severa della sua storia e della storia di un’epoca, apparentemente abbandonata a un disincantato pessimismo, trova nei versi finali il significato di un difficile percorso esistenziale e artistico mai ripiegato su se stesso, e ancora capace di guardare alla realtà senza trasfigurarla e senza subirla, non volgendo lo sguardo all’indietro ma aprendolo al futuro.
E tu mi vieni a dire
Che l'uomo muore
Lontano dalla vita
Lontano dal dolore
E in questa quasi indifferenza
Non è più capace
Di ritrovare il suo pianeta
Fatto di aria e luce
E tu mi vieni a dire
Che il mio presente
È come un breve amore
Del tutto inconsistente
Che preso dai miei sogni
Io non mi sto accorgendo
Che siamo al capolinea
Al temine del mondo
E tu mi vieni a dire
Che tutto è osceno
Che non c'è più nessuno
Che sceglie il suo destino
Non ci rendiamo conto
Che siamo tutti in preda
Di un grande smarrimento
Di una follia suicida
E sento che hai ragione se mi vieni a dire
Che l'uomo sta correndo
E coi progressi della scienza
Ha già stravolto il mondo
Però non sa capire
Che cosa c'è di vero
Nell'arco di una vita
Tra la culla e il cimitero
E tu mi vieni a dire
C'è solo odio
Ci sarà sempre qualche guerra
Qualche altro genocidio
E anche in certi gesti
Che sembran solidali
Non c'è più un individuo
Siamo ormai tutti uguali
E sento che hai ragione se mi vieni a dire
Che anche i più normali
In mezzo ad una folla
Diventano bestiali
E questa specie di calma
Del nostro mondo civile
È solo un'apparenza
Solo un velo sottile
E tu mi vieni a dire
Quasi gridando
Che non c'è più salvezza
Sta sprofondando il mondo
Ma io ti voglio dire
Che non è mai finita
Che tutto quel che accade
Fa parte della vita
Luigi Totaro