A volte, quando l’estate pioveva e i turisti scappavano dalle spiagge, noi restavamo o correvamo al Moletto del Pesce. mettevamo i nostri pochi vestiti sotto un guzzo rovesciato e ci abbeveravamo di pioggia tiepida, con la lingua tirata fuori e il muso all’insù, come si fa l’inverno per assaggiare i fiocchi di neve.
Mentre la pioggia lavava dalle lastre di granito e dalle bitte e croste di sale e il sangue e delle tartarughe marine macellate da Pomata, ci ripuliva come una doccia che pochi di noi avevamo a casa il salino sulla nostra pelle da africani e le altre croste delle ferite che ci facevamo cadendo in qualche stupido pericolo e zuffa, o per le frustate rami spinosi e flessibili dei buscioni che ci graffiavano mentre raccoglievamo more o rubavamo frutta.
A volte la pioggia era così battente da far male, come piccole pallottole o aghi di spillo e conveniva buttarsi in mare, immergersi e sentire lì sotto, come fanno i polpi e i pesci, il rumore dell’acqua del cielo che incontra quello del mare e, se il mare era calmo. guardare da sotto, trattenendo il fiato come una delfino o un gabbiano, la mitraglia della pioggia che crivellava di proiettili invisibili la pelle enorme del mare.
A volte il mare era scuro, livido come le nuvole che scaricavano pioggia, tuoni e lampi, altre volte diventava verde come il culo di una bottiglia e sotto, tra la sabbia i sassi e l’erbino l’acqua diventava diafana, quasi nebbiosa, come piovesse polvere di alabastro.
Altre volte, dopo un giorno di pioggia o un acquazzone violento, il mare diventava marrone di terra vomitata dal fosso di San Giovanni al Molettaccio ed è allora che dalla fogna che sboccava accanto al Moletto del Pesce – dal lato del bottino e del porto – uscivano le anguille trascinate giù dalla piena dai loro rifugi lungo i fossi che portavano a Monte Capanne e noi eravamo lì ad aspettale, a pescarle con esche e filaccioni tra la merda e il fango, strani incroci tra pesci e serpenti neri, con la pancia bianca e gialla e il muso appuntito.
Non sapevamo che quelle bestie dai riflessi verdastri stavano cominciando un viaggio lunghissimo verso il Mar dei Sargassi, non sapevamo che presto non le avremmo più viste e pescate, che presto sarebbero scomparse, come le gocce di pioggia nel mare che guardavamo capovolto.
Stavamo lì, su quei vecchi lastroni di granito di un moletto che tagliava e taglia il mare e la Marina, sotto la pioggia scrosciante, persi e felici di niente in frammenti di tempo, aspettando i nostri Sargassi lontani, come piccole anguille sguscianti.
Umberto Mazzantini