Heinz Gottberg e Dieter Allers erano due capoliveresi. Le loro doti umane, la capacità di integrarsi nella variegata comunità capoliverese, il rispetto per la vita e gli usi locali, l’amore per l’Elba più volte testimoniato anche dagli scritti di Allers, sono stati ben riassunti nell’articolo di ieri, 2 settembre, sul Tirreno, dovuto a Luca Centini.
Ma Gottberg e Allers vanno ricordati anche per le qualità di architetti, sia nella terra d’origine dove hanno operato con il loro studio nelle sedi di Monaco e di Berlino, sia sull’Elba. E proprio i loro interventi elbani confermano quelle doti di intelligenza e sensibilità ampiamente dispiegate nella comunità e con gli amici. Formatisi tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, essi appartenevano a pieno titolo a quella architettura moderna e del modernismo capace di coniugare forma e funzioni, basata sullo studio degli spazi naturali e urbani e sulla valorizzazione delle tecniche e dei materiali. Gli antichi centri elbani come Capoliveri e Rio li intrigavano con i loro spazi minuscoli da ricostruire e riadattare, così come le pendici delle colline li affascinavano per quella straordinaria commistione tra mare e campagna, manufatti e minerali, così propria dell’isola, segnata dalla cultura contadina e mineraria.
I loro interventi nelle abitazioni dei centri storici, così come le ville da loro progettate sull’isola, restano a testimonianza del profondo rispetto per le tradizioni e la materia autoctone, l’ambiente urbano e naturale, il paesaggio.
Si divertivano assai quando li chiamavo a darmi consigli per una ristrutturazione nel Buchino di Rio. In quelle case diroccate, ma ricche della storia di una comunità, sapevano disegnare un ordine spaziale rispettoso delle antiche strutture e insieme gradevole e adatto alle esigenze abitative più attuali. Erano destinati a lavorare insieme, non solo per l’amore che li univa e la loro cultura di formazione, ma anche perché le loro caratteristiche professionali erano perfettamente in equilibrio: più saldamente ancorato ai dati strutturali Heinz, il quale era anche ingegnere oltre che architetto, più creativo e a volte trasgressivo Dieter.
Che questo connubio potesse generare qualcosa di perfetto, in quella essenzialità e semplicità che apparteneva a entrambi, non ci si deve stupire. Erano capaci di disputarsi su come mantenere nella struttura rinnovata quella tal traccia della struttura antica, o anche su come rifinire un dislivello con le pianelle di cotto. Una volta in un piccolo appartamento che avevo acquistato e che dovevo far ristrutturare, dopo la solita perlustrazione condotta con la loro aria seria e attenta, con quella loro puntualità tedesca che poco si lasciava sfuggire, si fermarono davanti a un muro apparentemente pieno. “Devi assolutamente chiedere di aprire una finestra qui!”. Era davvero complicato, per tutti permessi che sapevo andavano richiesti, ma loro insistettero e mi richiamarono la sera per raccomandarmelo. Quel muro confinava con la scala di accesso al Buchino, l’antica porta del centro. Una volta ottenuti i permessi, iniziammo a demolire nello spazio destinato all’apertura, che volevamo stretta e proporzionata all’affaccio. Scoprimmo che proprio in quel punto c’era stata in passato una piccola finestra che permetteva di controllare l’ingresso nel paese. Più in là l’affaccio inquadrava la via verso la collina e la strada del Volterraio.
Una vista “antiteca” al mare e per questo particolarmente preziosa, non tanto a dare più luce, ma a collocare il senso di quello spazio abitativo. In questa intuizione si rivelava sinteticamente la loro impronta più originale. Non erano "archistar", creatori di opere vistose e autocelebranti. Come mi ha scritto l’amico comune, Hans Georg Berger, «la loro forza professionale stava in una rara capacità di comprendere l’architettura esistente e il suo contesto formale e sociale; avevano una sorta di "empatia architettonica", grazie alla quale arrivavano a creare spazi ameni, estremamente abitabili, spesso sereni.
Lo hanno fatto a Monaco e a Berlino con gli edifici art déco, ma soprattutto all’Elba». Un’architettura da rimpiangere, oltre che da ammirare.
Maria Ines Aliverti