Che Domenico Segnini “Ecchero” se ne fosse andato l’ho scopetto a Santo Stefano, nei manifesti mortuari sui muri, è stato un grande dispiacere, come una coltellata nei ricordi, come succede a molti di noi guardando quei manifesti, di fronte al distributore e prima della strettoia tra le case, di ritorno da viaggi, sicuri che avremmo ritrovato la Marina come l’avevamo lasciata e scoprendo che ne manca un pezzo unico.
Domenico era figliolo di Ennio – il cui nome ha passato a suo figlio – amico del mi’ babbo e che come il mi’ babbo ha lasciato presto la vita, lasciando Ecchero e la mamma nella casa di via del Calvario, arrampicata sul cotone abbarbicato sugli scogli. Vite difficili.
Con Domenico ci siamo brevemente incrociati a scuola alle elementari e me l’ero scordato – e anche lui non me ne aveva mai parlato – fino a che quell’anno lontano non è stato resuscitato qualche settimana fa da una fotografia pubblicata da Roberto il Pitturino: Domenico è lì, non al centro, ma presente.
Poi me lo ricordo cameriere alla trattoria Zorba, taciturno ma capace di battute taglienti come rasoiate, metteva al loro posto clienti e prepotenti con un’ironia intrisa di realismo, in grado di smascherare l’ipocrisia. Un uomo buono che guardava un mondo forse cattivo, che non gli aveva regalato niente e dal quale Ecchero non si aspettava regali. Domenico guardava il mondo affacciato sulla fatica del vivere, con un’apparente tristezza che diventava spesso un mezzo sorriso, perché Ecchero sapeva anche ridere di quel mondo, del nostro piccolo mondo che guardava vivere.
E, non a caso, quando Domenico venne a lavorare nella cooperative dI boscaioli Terra Uomini e Ambiente, diventò subito “l’Osservatore Romano”, perché a volte, in un sentiero o su un crinale di un monte, si fermava a guardarci lavorare, come ci studiasse, mentre riprendeva fiato da una sigaretta e dalla fatica.
E’ lì, tra quei sentieri e quegli erbitri, che io e Domenico abbiamo ripreso a parlare dopo quell’anno di scuola che entrambi avevamo dimenticato. E’ lì che ho scoperto l’ironia che non si impara a scuola e un cinismo candido che solo chi ha patito la vita può avere. Domenico ti sorprendeva con una sentenza definitiva, con un giudizio senza appello, con una frase detta cambiando timbro di voce che conteneva già dentro una risata e che la risata scatenava, perché tutto questo era inaspettato in un uomo taciturno che poteva passare un’intera giornata senza parlare per poi mettere a segno la parola giusta, come una freccia lanciata nel centro di un bersaglio.
Poi Ecchero fu morso da una zecca che a momenti se lo portò via e furono mesi di ingiusta sofferenza che lo hanno segnato. Lui dovette lasciare il lavoro di boscaiolo e lo fece più o meno nello stesso periodo in cui lo feci io per far altro.
Ogni tanto ci si trovava e ci si salutava con un “Eh”, come si fa alla Marina con chi si conosce abbastanza bene da rendere superfluo il buongiorno, negli ultimi mesi Ecchero rispondeva raramente al saluto, forse preso dai suoi pensieri o perché mi credeva responsabile di qualcosa che non gli piaceva. Non lo so, non gliel’ho mai chiesto perché pensavo che fosse giusto così, era una sua decisione.
Se ne è andato un uomo mite, silenzioso, spiritoso e si è portato via il mistero della sua vita, le cose che ha osservato, ha lasciato un posto vuoto sulla panchina dove andava ad ascoltare gli altri parlare e a fare battute definitive. Se ne è andato lasciando un pugno di ricordi, l’affetto di chi gli voleva bene, una scia di poche parole e gesti che presto dimenticheremo, come facciamo tutti e per tutti, per gli umili che guardano il mondo e lo attraversano con passo lieve e chi si crede potente, si fa largo a gomitate e guarda altrove, lontano da dove guardava Ecchero.
Umberto Mazzantini