Per chi è nato o abita in un’isola grande, come la Sicilia, la Sardegna, la Corsica o Creta, l'Isola d'Elba apparirà al massimo come uno scoglio; e, infatti, gli elbani stessi, specie quando si trovano a viverne lontani, la chiamano proprio così: lo Scoglio. Eppure, nemmeno tanti e tanti di quegli anni fa, c'eran dei vecchi, e specialmente delle vecchie, che fuori dal loro paese non avevano mai messo il naso e che non conoscevano niente di quello Scoglio al di fuori delle dieci o quindici case che avevano davanti agli occhi, e del pezzo di mare oltre il quale, dice, c’era il mondo.
E bisogna capirli, perché di strade ce n'erano poche e malagevoli. Strade? Di strade, o almeno di qualcosa che loro vagamente assomigliasse nel senso comune della parola, ce ne saranno state due o tre in tutta l’isola; e non debbo nemmeno ricorrere alla famosa “memoria d’uomo”, perché, almeno in parte, me ne ricordo anch’io negli anni di quand’ero bambolo, vale a dire negli anni Sessanta del secolo scorso. Figurarsi ai tempi di mia madre, di mia zia, per non parlare di mia nonna o della bisnonna, classe 1888, che ho fatto in tempo a conoscere e che è morta mentre s’era a tavola un giorno di luglio del 1968, una cascata di capelli bianchi che, mentre mangiava un pezzo di pesce lesso, volle andarsene in quel vastissimo Nulla ove non l’avrebbero più toccata né l’Adesso, né il Qui.
Non so se da lei, o da qualche altra vecchia, ho sentito raccontare per la prima volta la storia della Spesina del Poggio; una donna parecchio anziana che era pagata per andare a far la spesa per mezzo paese, non si sa in quale Marciana, se quella Alta o quella Marina. La sera prima le davano i soldi e le comande, e la mattina presto partiva a piedi. Comprava tutto quel che c'era nella lista e se ne tornava al Poggio carica come un somaro, con la roba nelle borse e nel grembiale. A volte, dice la storia, le lasciavano il resto dei soldi; ma lei preferiva tenersi qualcosa della spesa, ché la zuppa di soldi non è un granché. Un pezzo di cacio, tre acciughe salate, un po' di baccalà, la verdura per farsi la minestra o per condirsela con l'olio e il sale. Ma questa, nonostante tutte le leggende che saranno ben fiorite, è una storia quasi del tutto vera e documentata; della Spesina esistono persino delle fotografie. La storia che vo a raccontare, invece, non lo so se è vera. Anzi, c’è più di una probabilità che non lo sia e che me la sia addirittura sognata.
Me la sono sentita raccontare con poche parole, due o tre frasi rotte da qualche risata; e allora, stanotte, eccomi nel portico di casa mia, dove sto da solo a raccontarmela ancora, immaginando che me l’abbiano raccontata altri, i quali sono, tra l’altre cose, tutti morti da quel dì. In ogni isola, anche se era uno scoglio, esistevano dei posti lontanissimi, irraggiungibili. Posti favolosi di cui si sapeva soltanto il nome, e dove nessuno era mai stato; a Campo, qualche vecchia, se voleva parlare d'un posto davvero remoto, diceva: “è lontano come Margidore”. Margidore è una spiaggia nel comune di Capoliveri, sul Golfo della Stella, a qualche centinaio di metri da Lacona; da Marina di Campo, ora, in macchina ci si va in venti minuti, mezz’ora al massimo. Ai tempi di questa storia, invece, doveva essere lontana per davvero, anche perché non so se esistesse già la vecchia strada militare. E non soltanto era lontana: era in una zona che, allora, era palustre, una specie di Maremma in sedicesimo dove si diceva ci fossero degli zanzaroni che mangiavano la gente e facevan venire malattie innominabili. Le due o tre case che c’erano, in realtà dei magazzini abitati come tanti ce n’erano, insistevano su una zona acquitrinosa. Il pantano è nei nomi stessi, a partire da quello di Lacona -da lacuna, laguna-; Margidore sembra invece derivare da Marcitorum, un vecchio genitivo plurale che non ha bisogno di traduzione. Si aggiunga che, nello stesso comune, c'è un'altra spiaggia che si chiama Straccoligno ed il cui nome pare invece venire da Sterquilinium, ovvero “merdaio”. La gente del Caput Liberum, che è a volte un po’ prosaica ed avvezza a dare alle cose il loro nome, certi suoi posti li volle chiamare acquitrinio, putridume e merdaio, segno inequivocabile che i luoghi palustri non attiravano granché. Insomma, per farla breve: c'erano sufficienti motivi, e di ottimi, perché Margidore fosse la quintessenza della lontananza, perlomeno dalla piana di Campo. Ed era anche bene che se ne stesse bella lontana.
A Margidore, in uno di quei due o tre magazzini di cui vi dicevo, pare vivesse una famiglia ch'era composta da due sposi ancora belli giovani e che avevano già messo al mondo tre figlioli; a quindici o sedici anni, e a volte anche prima, una ragazza era già da marito, portava in dote tre pentole e il corredo fatto a mano dalla mamma e dalla nonna, e il viaggio di nozze non c'era perché, invece, c'era da lavorà’ come somari. Nei campi, in mare, nel bosco, nella vigna, in culo o dove capitava. A un certo punto, poi, ammogliato o scapolo che fosse, un giovanotto si imbatteva improvvisamente in quella cosa che quando fa pagare le tasse si chiama Stato, e quando invece manda a crepare in guerra si chiama Patria; e in quel frangente storico, diciamo verso il 1915, toccava per l’appunto partire per andare a ammazzare e a farsi ammazzare un po' più lontano di Margidore, tipo sull’Isonzo o a Gorizia. A Oreste, così m'han detto che si chiamava, toccò d'andare non si sa dove, in fanteria benché venisse da un'isola. La moglie, invece, non me l'hanno detto come si chiamava; lei la guerra, doppia, dovette farsela in casa e in un campo striminzito, in mezzo a zanzare sicuramente d’origine austroungarica da quant’erano incarognite.
Quando Oreste partì, sicuramente ci fu una frase tipica che non fu pronunciata. Quella della moglie in làgrime che, abbracciando il consorte che va al reggimento, gli dice: “Scrivimi!”. Non si poteva scrivere un accidente di niente, perché lui non sapeva scrivere e lei non sapeva leggere. Niente lettere. Non si poteva nemmeno farsele scrivere da qualcuno, le lettere, a Margidore, ché magari qualche commilitone a Oreste le avrebbe lette; a Margidore ci saranno stati nove o dieci abitanti, e tutti rigorosamente analfabeti. E allora nulla. Passa un anno. Ne passano due. Dopo due anni e mezzo, per qualche motivo che non si sa, arrivano a Margidore, a piedi, un prete e un carabiniere da Capoliveri. Sono stanchi come capre e chiedono da bere. Cercano la moglie di Oreste. Il resto, naturalmente, ve lo immaginate; a quei tempi, quando arrivavano il prete e il carabiniere a cercare la moglie di qualcuno che era soldato, era per dirle, regolari fogli e preghierine alla mano, ch'era diventata la vedova d’un caduto in guerra. E quella povera donna, e con lei il figliolo più grande che già capiva, si fecero i su' pianti e si misero in lutto con qualche cencio nero addosso. Però era d'estate, e faceva un caldo boia; il nero non s'addice a quella stagione, specie se il pianto c'è da asciugarselo in un campo a faticare, per di più con quel ragazzetto di undici o dodici anni che, come si vuole nelle campagne, morto il babbo già s'atteggiava a omo di casa e dava comandi a sua madre.
La vedova di Oreste aveva allora, sempre così m'hanno detto, ventott'anni. Ora, a ventott'anni, si è ragazze. Anche a quaranta o quarantacinque s'è ancora ragazze o giovani donne. Allora, a ventott'anni e con tre figlioli s'era donne, non dico vecchie ma donne e basta. Passava di lì il contadino o il pescatore, un po' più in là cogli anni e che in guerra non ce l'avevano mandato, e vedeva una donna di ventott'anni china sulla terra che, com’è noto, è parecchio bassa. Magari le diceva due parole. Magari la mamma e la nonna erano pure morte e non stavano, quindi, a rompere i coglioni. Magari c'erano tre figlioli con uno stomaco che, con un'ardita variazione distopica e ucronica rispetto ai posti e ai tempi di questa storia, si potrebbe paragonare al Ginnungagap, al cosmico e primordiale baratro vuoto della Völuspá eddica. Le cose, insomma, si trovaron presto ad essere già bell’e fatte; si combinò il matrimonio, un pianto alla vigilia per il primo marito morto, altre du' pentole di dote e, prima di ritornare a zappare, il mattino dopo, finalmente si ritromba un pochino. Anche questo è un aspetto che deve essere tenuto nella debita considerazione, con sommessa ancorché rude onestà.
E d'anni ne passarono un altro paio; le cose andavano un po' meglio, il figliolo grande aveva smesso di fare l'omo di casa e di voler comandare beccandosi una scarica di calci nel culo da lasciarlo con una chiappa a dir merda all'altra, e di figlioli n'era venuto un altro, anzi un'altra. Nel frattempo, la guerra era finita pure a Margidore, che così si ritrovava a partecipare dei sacri destini della Patria, invitta, liberatrice di Trento e Trieste e con un abitante in meno. Quel che stava per succedere, però, non aveva nulla a che fare con destini più o meno sacri, e nemmeno con Trento e Trieste (due posti che, va da sé, nessuno aveva mai sentito nominare; dovevano essere dalle parti di Nisporto e Nisportino). Stava per accadere una cosa bizzarra.
Ché, poi, di bizzarro non è nemmeno che ci abbia tanto. Di soldati dati per caduti e tornati vivi a casa son piene le cronache, gli archivi militari e le canzoni popolari (specialmente quelle francesi e russe, non so perché). Così pure di mogli risposate, il cui secondo matrimonio, sebbene con nessuna conseguenza penale data la “forza maggiore”, veniva annullato. Cassato. Invalidato. Con tanti saluti al secondo marito che ci aveva pure un figliolo (legalmente riconosciuto), e spesso con un'indimenticabile scarica di legnate alla moglie, da parte ovviamente del primo marito che l'accusava di non essere stata fedele alla sua memoria, d'essersi subito data da fare e via discorrendo; e la moglie aveva voglia, mentre su di lei si abbatteva l'ira del legittimo e rinvivito consorte, a dirgli che non c'era da mangiare, che i figli avevan bisogno d'un padre, che l'altro portava tre somari, una vigna, una barca, un maiale e, indovinate un po’, altre tre pentole. Tutte considerazioni più che ragionevoli e giustificate ma che non servivano ad evitare l’ira funesta da parte del becco risorto che, oltretutto, si ritrovava in un tugurio che oramai rigurgitava pentole. Insomma, per farla breve, c'era stato uno sbaglio. Era morto un altro Oreste del comune di Capoliveri, dal cognome simile o, forse, addirittura uguale; e in quel momento, in quel preciso momento, altre lacrime, altro dolore in un'altra casa.
Qui, nel portico della mia mente, da solo, per quanti sforzi faccia non mi riesce proprio d'immaginarmela, la scena. Tentativi a vuoto. Dunque: Oreste torna a casa, la moglie (probabilmente) sviene o roba del genere, c'è il secondo marito bianco come un cencio, i figlioli piccoli non capiscono bene e quello grande corre a abbracciare il padre. Fin qui ci siamo. Poi c'è un vuoto incolmabile, quel momento in cui, ad una persona qualsiasi di questa terra, viene inviata l'antimateria. Può toccare a tutti quanti, sapete. Può toccare al più grande genio dell'umanità come al contadino soldato di Margidore tornato vivo a casa dalla guerra quando lo si credeva morto e sepolto, ridotto a un ammasso informe di carne, ossa e polvere, in una fossa comune vicino a Cividale del Friuli.
Non riuscendo a mettere niente in quel vuoto, in quest’altro Ginnungagap, salterò solo a due altri anni dopo. C'era una casa, a Margidore, posto lontanissimo da Campo, Isola d'Elba, dove vivevano in santa pace, d'amore e d'accordo, un marito di nome Oreste; una moglie, il cui nome ignoro; un altro marito, seppure non più per il Padreterno e per la legge (ma chi se ne importa, del Padreterno, e ancora meno della legge); e quattro figlioli, tre maschi e una femmina. S'arrangiavano tutti quanti a lavorare; mangiavano tutti insieme; la notte, boh, facevano a turno, facevano tutta una lettata, più spesso dormivano stanchi come bestie, oppure infila tu che infilo io, di qua, di là, daje de tacco e daje de punta. Quello che volevano. Gli altri scarsi abitanti di Margidore si facevano saggiamente, come un tempo ebbe a suggerire Severino Boezio nel De Consolatione Philosophiae, una caterva di cazzi propri; e al prete che veniva a benedire casa per Pasqua si regalavano du' bottiglie di vino, e che se le bevesse ben bene se non voleva che gli fossero rotte sul ceppicone qualora si fosse azzardato a dir qualcosa in paese. Il sacerdote, naturalmente, conveniva che sarebbe stato un peccato ben più mortale sprecare tutto quel ben di Dio.
C'è che a Oreste, tornato a casa dalla guerra, Qualcuno aveva mandato un savio consiglio d'amore, che avrà elaborato, nella sua testa, nelle semplicissime forme che sono proprie delle cose più alte; e quel Qualcuno, ognuno lo chiami come gli pare. Io sono morto, però sono vivo. Sono tornato a casa, e la mi' moglie, che era vedova, s'è risposata e ha fatto bene, l'avrei fatto anch'io. Però non sono morto, sono vivo, e questa è ancora la mi' moglie. Saòsa? Ci si mette tutti insieme, morti rinviviti, vivi mai morti, figlioli, maiali, barche, vigne, somari, topa, e, ça va de soi, pentole. E vaffanculo, ma che ci si pole stà’ a far tanti drammi, o addirittura ammazzare per una cosa del genere? Dovrei ammazzà’ la mi' moglie? Ma si pole anche pensallo? Dovrei far del male a quel brav'omo? N'ho vista anche troppa di morte, e di morte orrenda, dio sagrato. Qui a Margidore si sarà anche lontani, paludosi, illetterati e pieni di pentole, ma s’è persone civili.
Mamma, che bellissima nottata nel portico. Dev'essere proprio arrivata la primavera, e ci son stati degli anni che l’ho vista arrivare a metà febbraio. Qui con me, ombre, voci, e un ragazzino che ascolta storie di cent’anni prima. Sto qui, apro la porta, entro in casa e mi faccio un caffè con una caffettiera che ha fatto la guerra e che non mi decido a buttare via sebbene ne esca fuori una melma ributtante che non vorrebbe nemmeno il cinghiale che grufola oltre la stradina. Mi rimetto a sedere e guardo verso in là. Guardo lontano. Lontano come Margidore.
Riccardo Venturi