Quando Lorenzo Anselmi mi ha chiamato per dirmi che Giovanni, “Giovannino” Petri se ne era andato, la prima cosa che mi è venuta in mente è la sua immagine sotto i lecci maestosi di Val di Cappone, fermo ad aspettarci, un’ombra filiforme nell’ombra, con parole gentili e un paniere pieno di funghi che non poteva mangiare, ma che conosceva per luogo di nascita e preferenza di pioggia e vento.
Giovannino era un uomo esile, che sembrava stremato da molte malattie, ma che era retto da una fibra e da un’anima di acciaio e da un’intelligenza vorace, tagliente, acuminata con i libri e con i viaggi nel suo amato oriente.
Era un essere fiero, un sapiente eremita che, come mio fratello Mario, quasi passandosi il testimone, aveva scelto le Vigne dello Zega per passare i suoi ultimi giorni, costruendo barriere di legno e spine per difenderle da uomini con il fucile e dagli animali introdotti per sparargli con gli stessi fucili.
Giovannino era un Sisifo silvestre, sistematore di sassi, strade e muretti, divoratore di biblioteche, un intellettuale scalzo, fieramente antifascista, che ha accompagnato gli ultimi giorni della sua vita rileggendo per l’ennesima volta il suo libro preferito: “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline. Un libro nel quale si riconosceva probabilmente fin dall’introduzione: «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita». Ma ancor più quando il narratore Bardamu dice: «Non posso trattenermi dal dubitare che esiste una qualunque genuina realizzazione del nostro più profondo carattere, tranne la guerra e la malattia, quelle due infinità dell'incubo».
A volte l’incontro con un libro può essere fatale, può segnare un destino, e la vita di Giovannino negli ultimi anni era misurata dai passi tra boschi e salti di vigne abbandonate e libri, ritrovati e scoperti nello strano magazzino a specchio con due palmenti gemelli, diete ferree per il corpo e lo spirito che lo avevano fatto diventato così leggero per sé e per il mondo da non lasciare nemmeno traccia di passi sulla rucia delle foglie di leccio, così essenziale da diventare albero, animale, roccia sapiente, guardiano di Val di Cappone, soldato disarmato di albe umide e tramonti infuocati, che scivolano col vento su schiere di lecci neri, spettinati, che marciano inesorabili verso il mare con il lento e paziente passo del tempo.
Un uomo che ha portato fino in fondo il fardello pesantissimo della sua fragilità e del suo infinito, indomito e doloroso coraggio che a volte diventava indignazione per il superfluo e gli sbruffoni e i prepotenti. Una forza e un sorriso che non riusciremo mai ad avere.
Ciao Giovannino, un giorno forse ci ritroveremo tutti alle Vigne dello Zega a bere il vino torbo e forte dei fantasmi del passato e a mangiare finalmente i gallastruzzi e i cocchi che avrai colto a Val di Cappone.
Umberto Mazzantini