“Me n’aricordo” come se fosse ora ..” quando arrivò per la prima volta l’Aethalia ed a guardarla “da ’n cima a Porta a Terra”, nella piazzetta che c’era prima che si sventrassero le mura per il secondo (automobilistico) tunnel, eravamo in quattro mocciosi: io, Marcello Giardini, Piero Caprai e Patrizia Cherici.
Ci fece una grande impressione vederla sfilare dietro i resti della Torre di Passannante, non ancora ricostruita dopo le bombe di una guerra che per un pelo ci eravamo persi, e dirigersi tutta pavesata a festa con le bandiere multicolori tese da prua a poppa verso il “nuovo” porto.
Eravamo abituati alle “corvette” canadesi riciclate dalla Navigazione Toscana come Portoferraio e Porto Azzurro, che ormeggiavano davanti a Porta a Mare e dalle quali i portuali scaricavano, su quello che oggi si chiama Molo Elba, con i bighi e catturate in grandi reti, delle rare auto, come fossero cassoni. Al Gallo, all’estremo della Darsena, invece attraccavano i bastimenti di legno che ancora per qualche anno sarebbero rimasti in servizio, portando dal continente laterizi, pietra pomice ed altre merci.
L’Aethalia con le sue 800 tonnellate di stazza ci parve gigantesca, “aurea” per le numerose finiture in ottone, “magica” perché arrivata a banchina la sua prua si alzava e da quella bocca uscivano automobili e pure pullman.
Per anni ed anni l’Aethalia fu “la nave”, e fece la spola sulla rotta del canale senza saltare una corsa che fosse una, partiva e arrivava anche con le peggiori mareggiate, e con le libecciate o ponentate più forti c’era sempre una piccola folla alle Ghiaie per vedere la manovra della virata oltre lo Scoglietto, quando tutte quelle tonnellate diventavano quasi un giocattolo che rollava e beccheggiava forte, e al momento della virata sembrava restare giù inclinato per un tempo infinito, ma poi scattava come spinto da una molla verso l’assetto e la rotta giusta e filava col vento di poppa verso il golfo ferajese o verso il canale.
Mare “come l’olio”, dunque, o mare “come i monti” alle 7.40 “la nave” (ci si poteva rimettere l’orologio), mollava le cime e partiva, era una certezza, così come era certo che il Comandante Foresi avrebbe riportato l’Aethalia “a casa” con il carico dei passeggeri dell’ultima corsa serale, quelli più danarosi (e un po’ spocchiosi) nel salone di prima classe a prua, i più proletari in quello più spartano della seconda, dove si sentiva meno il mare, ed era pure meno frequente incrociare “facce ceree e lancio di spaghetti”.
Di corse - come dicevamo - non se ne sopprimevano quasi per nulla, a fare notizia erano caso mai i ritardi, ci si raccontava “come reduci” di “quella volta che ci si mise quattro ore e mezzo per arriva’ a Portoferaio”, o di quella volta che si “ballava” tanto che Alfredino il Comandante fece chiudere nel bagagliaio due notabili ferajesi della Prima Classe (non faccio i nomi anche se potrei perché ero a bordo) che “dalla strizza di culo avevano sdato di capo” (trad. colti da un attacco di panico) “e urlavano e rompevano i coglioni a tutta randa”, ma in porto arrivammo tutti come normale salvi.
Sapete perché vi ho raccontato questa storia di una nave che non c’è più? Perché da un po’ di tempo in qua, vedo altre navi (vecchiotte e ritinte sì) comunque varate almeno 30 anni dopo quell’Aethalia, di lei molto più grandi, più dotate di tecnologia (eliche di manovra stabilizzatori etc.) quindi molto più adatte (a parte il caso clinico della Rio Marina - Bella Davvero) a navigare in sicurezza.
Ma le vedo pure (specie dopo la sciagurata privatizzazione Ceccobao) fermarsi a banchina anche con tre scorreggine di vento e con onde affrontabili in pedalò.
E non so se mi vien che ridere, che piangere o che incazzarmi.