Pomeriggio di letture dedicato alla Giornata della Memoria, presso MardiLibri, la libreria del centro storico di Portoferraio. Una ventina di persone hanno partecipato venerdì all' iniziativa leggendo brani dai libri di Primo Levi e Fred Uhlman, presentando brevi ricerche sul tema della 'razza' e dei preti resistenti nella provincia di Livorno e portando testimonianze di personaggi, anche elbani, legate a quel periodo, come il deportato campese Elio Mazzei.
Tra i contributi portati, riproponiamo un breve racconto di Federico Regini, scritto alcuni anni fa in occasione della celebrazione del 25 Aprile, ma che (purtroppo) visto l'epilogo, si lega anche alla Giornata della Memoria. Una storia vera da approfondire che Regini spera di riuscire a fare in quanto esistono i carteggi.
Protagonisti sono quattro ragazzi di Porto Azzurro, anzi di Porto Longone, che nel 1944 vennero chiamati alle armi con il bando "Graziani": Lorenzo, Franco, Checco e Mario.
Loro che non erano mai stati al di fuori di Piombino, quattro amici unito da un un unico destino.
“I quattro marinai”
un racconto di Federico Regini
Lo ricordo come se fosse oggi, invece era il 27 marzo del 1944, una mattina come le altre, dove il marzo non fece da pazzerello e lasciò splendere il sole sopra quelle acque azzurre e calme del porto in fermento a causa della guerra.
Lorenzo, Franco, Checco e Mario avanzarono verso il palazzo comunale, pochi commenti e tanti pensieri, era arrivata la cartolina di precetto per la chiamata alle armi, indetta dal bando “Graziani”, per indossare la divisa della Repubblica di Salò.
Il 28 marzo del 1944 erano già in viaggio accompagnati da un flebile sentimento che gli diceva che era un dovere andare, partire, difendere la patria.
La patria, l’Italia, l’Italia dilaniata dalla guerra, l’Italia divisa, quell’Italia mai conosciuta al di fuori di Piombino.
L’Italia, un nome e negli occhi solo una cartina geografica da percorrere, un’occasione per conoscerla e per uscire dal guscio dell’isola, che solo da poco tempo si rendeva conto di cosa fosse la guerra.
Giunsero a Vercelli per la vestizione con la divisa della Repubblica Sociale di Salò, ignari dell’ordine appena giunto sull’isola di sospendere la chiamata militare, così vennero indirizzati a Venezia dove giunsero dopo ore e ore di treno insaccati nelle loro divise e con le armi di ordinanza in braccio insieme ad altri ragazzi coscienti e incoscienti di quello per cui andavano a combattere.
Nell’Aprile del 1944 li assegnarono a una batteria costiera della Marina nella X squadriglia Mas di stanza a Lerici; quattro Longonesi scelti per la decima, fonte di orgoglio per molti giovani a venire, che la guerra avrebbero conosciuto solo dalla televisione.
Il gruppo di eccellenza militare della Repubblica fascista, il braccio armato del Duce, almeno così si diceva, perché più il tempo scorreva, più le munizioni scarseggiavano, l’organizzazione diventava più frenetica e i turni sempre più pressanti, mancavano uomini, si contavano i disertori, qualcosa non tornava, si era rotto lo specchio e non rifletteva più.
Furono giorni intensi, solo la vista del mare dava sollievo ai loro cuori e portava l’odore della loro isola, del loro paese.
Ore interminabili di lavoro, di ricordi, di incertezze e tanta voglia di tornare, quella non era l'Italia che immaginavano.
La mattina del 25 giugno del 1944 Lorenzo, diventato addetto radio, aveva sentito che l’isola era stata bombardata sia dai tedeschi che dagli americani, c’erano stati anche dei morti.
Il ragazzo radunò Franco, Checco, Mario insieme con altri elbani, i dubbi di quel periodo divennero solo una chiara certezza, quella di tornare a casa per stare vicino alle loro famiglie e aiutare gli amici.
Fuggirono di notte al cambio del turno vestiti delle loro divise dell’esercito della Repubblica di Salò, sfidando i pericoli e le conseguenze che questo avrebbe potuto comportare, l’ira del regime nei confronti dei disertori e l’incontro con qualche brigata partigiana.
Checco e Mario con altri tre elbani rimasero nascosti a La Spezia, ma furono catturati quasi subito, mentre Franco e Lorenzo insieme a un certo Battaglini Candido riuscirono a evadere dei posti di blocco abbandonando la città.
Per giorni attraversarono a piedi e con qualche mezzo di fortuna tutta la linea costiera fino al lago di Massaciuccoli, sfiorando le brigate degli anarchici di Massa e dei partigiani a Montignoso, le SS tedesche che cercavano di avanzare verso Massarosa, oltre alle pattuglie fasciste sparse per la regione.
Piombino in quel momento era irraggiungibile, da Livorno in poi era troppo rischioso avventurarsi, per cui convennero nell’idea di cercare rifugio da qualche conoscente che viveva nei pressi di Lucca, riordinare le idee e ripartire.
Grazie a una donna combattente, nascosti sotto un baroccio per il trasporto del fieno, raggiunsero Altopascio, dove trovarono una sistemazione nella casa di un certo Carletti, originario di Rio Marina e sposato da alcuni anni con una donna del posto.
La situazione nel paese era molto tesa, le continue incursioni nelle case dei cittadini alla caccia di disertori e partigiani indussero la signora Carletti ad allontanarne almeno due per precauzione.
I tre rimasero uniti, riposarono fino a verso le due di notte, senza dormire perché i pensieri si sovrapponevano come la polvere di una clessidra che precipita inesorabile da far scoppiare il cervello.
Approfittando del buio e indossando ancora la loro divisa s’incamminarono verso i monti Pisani, poiché girava la voce ci fosse la possibilità di essere accolti dai partigiani bisognosi di armi.
Non era ancora l’alba quando una voce straniera penetrò la campagna ancora avvolta nella nebbia, poi una raffica di mitra tagliò l’aria tersa incidendo una grossa quercia.
Gettarono in terra le poche armi mai usate, posero le mani dietro alla nuca e si inginocchiarono, davanti a loro comparve un militare delle SS tedesche; era il 01 Luglio del 1944 e i tre elbani si arrendevano agli alleati della nostra patria.
Tutti e otto si ritrovarono nel carcere militare di La Spezia, poche parole, un forte abbraccio, un sorriso e la consapevolezza di essere uniti per sempre da un destino comune, indipendentemente da cosa sarebbe successo da lì in poi, lontani dalla loro isola, diventata un miraggio, e dai loro cari.
Vennero trasferiti nel carcere di Marassi a Genova e furono accusati dal maresciallo Rastrelli di diserzione, il 15 luglio del 1944 il processo decretò la condanna morte prevista per il giorno 17 Luglio.
Rimasero in silenzio a sentire le motivazioni della condanna, non c’era un avvocato a difendere le loro ragioni, c’era solo la consapevolezza muta e nitida di non aver fatto niente contro il loro paese.
Sedevano su quelle sedie fredde del tribunale militare con il cuore all’isola e lo sguardo fiero, ma inerme verso il maresciallo Rastrelli.
Il rappresentante della loro patria, l’emblema del potere che vacilla, aspro, stupido, irrazionale e violento, il colpo di coda di un regime che stava per cadere; nella sua voce che pronunciava la condanna di morte il fallimento di una nazione, di un popolo.
Gli otto elbani si salvarono grazie all'intervento dall’alto ufficiale Papi, l’altra faccia, quella umana del potere ormai al tramonto, che ottenne almeno la promessa da parte del comando tedesco di tramutare la pena con l’internamento in un campo di concentramento in Germania.
Altri treni, altre facce senza più vita e speranza, da quell’ultima giornata di sole nella loro isola erano trascorsi pochi mesi, ma avevano scavato solchi indelebili nelle loro coscienze.
Non si erano mai mossi oltre Piombino, era un’Italia diversa da quella in cui credevano, ora erano diretti in Germania, dove non c’era nemmeno il mare da respirare.
La promessa di un alleato è sacra come la vita, ma chi non rispetta la vita figuriamoci una promessa.
A Monaco confermarono la condanna a morte, condannati da stranieri in terra straniera per una questione italiana.
Dopo vari trasferimenti approdarono al carcere di Ingolstadt sul lago Auwald, dove il Pacinotti scrisse un'ultima lettera allo zio Fausto, nella speranza che riuscisse nuovamente a salvargli la vita con una delle sue conoscenze, ma questa volta non ci riuscì.
La mattina del 09 Settembre del 1944 Prosperi Lorenzo, Pacinotti Franco, Innocenti Francesco e Martorella Mario indossarono nuovamente la loro divisa, quella dell’esercito della repubblica di Salò, e uscirono da quelle mura fredde e tetre del carcere.
Un tiepido sole cercava di farsi largo tra la foschia del mattino e i fitti salici bianchi paralleli al sentiero, ogni passo riecheggiava nella bagnata brughiera tedesca, i quattro marinai di Porto Azzurro incrociarono i loro sguardi umidi e fieri, Lorenzo sottovoce disse - Il sole si vede in tutto il mondo, ma non da tutte le parti splende alla stessa maniera, questo non è proprio il sole della nostra Elba -, un mezzo sorriso si disegnò sul volto degli amici prima che una voce straniera ordinasse il silenzio.
Li legarono a un palo come animali, rifiutarono la benda sugli occhi, volevano guardare, ma non i loro boia tedeschi, il lago.
Quello specchio di acqua grigia su cui sospesa galleggiava una leggera nebbiolina e in lontananza una piccola imbarcazione a remi danzava come uno spettro lungo i contorni delle colline circostanti.
Lorenzo e gli altri pensarono a quanto fosse invece bello l’orizzonte, un mare senza fine che s’incontra con il cielo, un luogo indefinito, un’unica tavola di raso azzurro attraversata da barche colorate e dal volo dei gabbiani.
Immaginarono il loro paese in una domenica di sole, come ne avevano vissute, con le persone vestite a festa passeggiare nella piazza e le ragazze tutte sistemate percorrere il lungomare in attesa di qualche sguardo complice.
Videro se stessi giocare a carte di fronte a un bicchiere di vino fuori dell’osteria, le risate degli amici e le grida dei bambini che si rincorrevano intorno al tavolo, tutto era luce, tutto era vita, scorsero il loro futuro con gli occhi sudati di lacrime e rimasero sospesi nel sogno, prima che una pallottola gli rubasse anche questo.