Il piccolo tour dell’Elba al seguito del mio romanzo, "Una vita non basta. Memorie da una metamorfosi", a cura del Libraio Gest di Portoferraio, è cominciato ieri sera a Marciana. La sala della Collegiata di San Sebastiano è già addobbata per il Natale, lo sfondo dello scenario è di un blu intenso con stelle comete.
Una ventina di partecipanti è un buon pubblico, in questa stagione, e l’attenzione è alta, per tutto il tempo. Ogni buon lettore ti rimanda sempre qualcosa di originale, una sua particolare eco della tua scrittura, qualcosa cui a volte neppure tu avevi pensato.
Angelo Mazzei, che racconta la sua ricca lettura, è da sempre un fan di questo libro, da quando l’ha letto in bozza; gliel’avevo mandato perché potesse trovare errori, inesattezze, incongruenze, in particolare nelle notizie e nei riferimenti all’Elba (cioè per gran parte del libro). Parte da Victor Hugo e dal suo soggiorno all’Elba quando aveva due anni (“quanti di voi lo sanno che è stato qui?”) e riprende l’immagine di questo bambino lontano dalla madre che vede i polpi giganteschi sui carrettini dei polpai e forse ne resta colpito a vita, fino a inventare la Piovra 60 anni dopo. Angelo è colpito dalla quantità delle storie di questa terra che si intrecciano e dal tessuto che le unisce, avvincendo il lettore. Secondo lui questo libro meriterebbe di essere adottato nelle scuole elbane perché queste piccole grandi storie dell’isola dovrebbero conoscerle tutti, mentre a scuola lui al massimo ha trovato sui libri di scuola solo tre righe dedicate all’Elba, quelle su Napoleone, per di più sbagliate. “Si conosce meglio l’isola da qui che da una guida turistica”, a suo avviso. Per lui il libro, che sarebbe qualcosa di più di un semplice romanzo, parla soprattutto di anima, perché al centro c’è l’anima delle cose, della natura, dei luoghi e delle persone (l’anima mundi insomma), dove tutto è collegato da fili invisibili, Mayol e le miniere, il calcio, i Beatles, il mare e i suoi abitanti. E’ la seconda volta che sento fare una lettura di questo tipo; la prima, a Roma, il giornalista e scrittore Carlo D’Amicis diceva di aver visto molta spiritualità nel romanzo. Non ci avevo pensato e non era nelle mie intenzioni ma se traspare anche questo, senza fare discorsi filosofici o religiosi, mi fa piacere. Ci penserò e lo rileggerò anch’io, da questo punto di vista. Dico che se ai sassi delle Ghiaie si lega la storia degli Argonauti (le macchie blu sarebbero tracce del loro sudore) quella spiaggia si ama di più e l’ambiente si protegge anche così, scovando le storie e dando un senso compiuto a tutto.
Tra i venti presenti c’è Yuri Tiberto, che il polpo preveggente superstar mondiale l’ha pescato e mi ringrazia per avergli dato un senso e averlo riconsegnato alla sua isola con una bella storia, che l’Elba dovrebbe far sua, come le tante altre nascoste ai più e riscoperte da Una vita non basta.
Io aggiungo che forse l’occhio del forestiero può vedere nell’isola molta più unità e profondità di quanto non sappiano vederne gli stessi elbani, preoccupati di definire la loro identità attraverso ciò che li distingue anziché quello che li unisce. Ma certo le catene di colli e monti che separano una parte dell’isola dall’altra creano isole nell’isola e l’ora di tempo che divide il nord dal sud di Roma pare infinitamente più piccola di quella che tiene una parte dell’isola lontana dall’altra, gli elbani ferrosi dai pietrosi e via distinguendo.
Oggi la tappa è Rio Marina, luogo di nascita di molti personaggi del romanzo, specie di quel Nonno Aldo che ha vissuto da bambino le lotte del 1911 e le storie di solidarietà e ha visto le miniere di tutta Europa. Anche Paul il polpo, oltre alle profondità del mare, conosce le storie di miniera, poiché è passato dall’Elba a Oberhausen e conosce la storia del centravanti spagnolo Villa, “el minero del gol”. C’è da star certi che a Rio Marina, stasera alle 17,30 al Centro Polivalente, con Paola Mancuso, si parlerà soprattutto di miniere, e di “com’eremo”.
Un brano anche oggi, dal libro, proprio sul “com’eremo” di un secolo fa:
“Io il mio babbo a casa non l’incontravo quasi mai: partiva per la miniera che non era ancora giorno, e io dormivo ancora, e la sera tornava quand’ero già a letto. Lo vedevo la domenica, quando restava a casa a coltivare il campo o a costruirsi i mobili da sé. A sei anni ho cominciato a lavorare anch’io. Un po’ ero contento, perché così potevo vedere il babbo: noi bimbi accompagnavamo gli asini che portavano gli otri con l’acqua ai minatori. Erano dieci chilometri, tra andata e ritorno, da casa alla miniera. ‘Per fortuna – diceva il babbo – la strada da fare è tanta: respiro aria pura e ripulisco i polmoni, mi godo le stelle e il silenzio della notte. Nella bella stagione sento il profumo del mare e quello dei campi. Il mese più bello è settembre, quando si spandono per l’aria i profumi dell’uva e dei fichi maturi, e appena si può, se ne prendono un po’ per mangiarli nell’intervallo di pranzo.’ Sulla strada il babbo raccoglieva anche la menta da masticare in miniera per spegnere gli odori forti.
D’inverno noi bamboli portavamo, come i grandi, un tizzone ardente per illuminare la strada. Serviva anche a scaldarci, ma dovevamo stare attenti a non bruciarci. Il babbo lavorava all’aperto, sul grande spiazzo davanti al mare, dove si lavava il ferro prima di caricarlo sulle barche. Quando vedeva gli asini avvicinarsi ai cancelli alzava due volte la mano per farsi riconoscere, era il nostro segnale: da lontano i cavatori avevano le facce grigie come i vestiti per la polvere di ferro, e anche i polmoni dovevano essere dello stesso colore, per quello che respiravano nove o dieci ore al giorno. Quando vedevo alzare una mano due volte, urlavo da lontano ‘Ciao babbo!’. Lui forse non mi sentiva, ma per me quel saluto valeva tutta la camminata.”
Luciano Minerva