Questa volta no.
Non scriverò di virtù e bellezza, di passione e di persone che ci mettono testa e cuore.
Scriverò di rammarico, senso di frustrazione e vuoto.
Scriverò delle mani di Nina, Tommaso, Samuel, Laerte, Desirée, Aurora e di quelle dei tanti ragazzi che hanno partecipato al progetto “Giovani sentinelle per la legalità”, mani che non ho visto alzarsi per fare le domande ai relatori, perché non ne hanno avuto modo.
Scriverò degli studenti di Istituti Superiori e della Scuola Media di Portoferraio che in questi mesi hanno lavorato al progetto “La Scuola che vorrei” e che oggi, al Centro De Laugier, hanno esposto il frutto del loro lavoro.
Durante gli interventi, ho sentito parlare di spazi comuni per la condivisione di interessi, di sale insonorizzate per la musica, di bar, biblioteche, aree verdi, attività culturali fruibili per tutti. Qualcuno si è cimentato in esercizi di comunicazione vivida, attraverso la realizzazione di enormi cartelloni colorati, altri (i più grandi) si sono lasciati sedurre dal fascino del power point.
Non importa lo strumento e forse non è neanche così importante l’argomento che i ragazzi hanno scelto per parlare con gli adulti: è importante che ci abbiano provato, che si siano presi un pomeriggio di soleggiato marzo, per confrontarsi con amministratori, cittadini, insegnanti e famiglie,che ci abbiano creduto.
Mia figlia ha passato ore chiusa in bagno a ripetere la sua Lettera al Sindaco. Una lettera che prendeva spunto da un immaginario Centro Giovani per come lo avrebbero voluto loro, nel quale godere di tutti i servizi di cui sopra, almeno per il tempo della sua fantasia. Una lettera che, come tutti gli altri progetti, era un’importante opportunità di crescita collettiva, un’opportunità (e credetemi, son sempre più rare) che i giovani ci davano per poter dialogare in forma costruttiva e propositiva, insieme, al di là del verboso parlarsi addosso, ascoltandosi. Il fatto è, che non siamo più abituati a sintonizzarci sull’interlocutore, a immedesimarci con le sue reali esigenze e oggi non ha fatto eccezione.
Terminati gli interventi emozionati e partecipati dei ragazzi, la parola è passata alle istituzioni: si doveva quindi aprire il dibattito che ci era stato promesso all’inizio dell’incontro.
Genitori, insegnanti, ragazzi, eravamo tutti uniti da un’unica speranza: parlare insieme, ricevere risposte, fare domande, dare un senso all’impegno scolastico degli ultimi mesi, far vedere ai ragazzi che questo paga.
Lucrezia, una alunna di Seconda Media, seguiva con attenzione dalla terza fila. In mano stringeva un foglio, dove si era appuntata alcune domande. Ci aveva lavorato mesi con la professoressa e ora aspettava che arrivasse il suo momento, non senza emozione, come è giusto che sia.
Ma i grandi, si sa, spesso non sono all’altezza dei piccoli e cedono facilmente alla lusinga del verbo, dimenticando che la comunicazione non può prescindere dall’ascolto per essere efficace. Parlare a una platea di giovani, senza curarsi delle loro esigenze, senza interessarli, senza coinvolgerli e soprattutto senza considerare che nel giro di venti minuti la sala si è completamente svuotata perché i ragazzi, avviliti e annoiati, si sono alzati, non è inutile ma pericoloso. E’ pericoloso perché, se non comprendiamo che la fiducia che questi ci riconoscono è un bene finito e prezioso, rischiamo di giocarci le poche carte che ancora abbiamo per essere loro da esempio e guida.
Sono rimasta fino a che, a sala ormai semi deserta, anche Lucrezia ha abbandonato la stanza, consegnando con tristezza alla professoressa il questionario che stringeva tra le mani, un questionario che ho voluto vedere, per capire con i miei occhi quanto stava accadendo. Ha atteso fino all’ultimo, Lucrezia, resistendo all’imbarazzo di essere rimasta l’unica della classe, perché aveva preso l’impegno importante di parlare agli adulti.
Il fatto è, che oggi i grandi sono stati loro, i ragazzi, che con impegno e colore hanno condiviso le loro idee e ci hanno messo nelle condizioni di poterne partecipare ma noi abbiamo perso. Abbiamo perso di fronte ai ragazzi ma anche di fronte alle insegnanti che, a fronte di tanto impegno, non hanno potuto garantire agli alunni l’auspicato risultato. Perdiamo ogni volta che manchiamo l’appuntamento con il confronto, con il dialogo a cuore aperto che passa obbligatoriamente attraverso l’ascolto e lo scambio di empatia con l’interlocutore. Perdiamo, se nessuno si alza in piedi a dire che è inutile che le risposte ai quesiti arrivino alle 17.30, quando i naturali destinatari di quegli impegni, se ne sono andati in Calata a godere del bel sole. Perdiamo, se non comprendiamo che è finita l’epoca in cui si poteva dire poco con tante parole e che è arrivato il momento di esprimere molto, con poche parole. Perdiamo, se non comprendiamo che l’attenzione dei nostri interlocutori è preziosa e richiede rispetto, cura, amore e che non è infinita.
Scendendo le scale del Centro De Laugier, ho aperto il foglio che Lucrezia stringeva tra le mani e tra le sue tante domande, ho letto a voce alta: “Perché un centro giovani?”
Già, perché? A che serve? Noi li ascoltiamo, i giovani? Che senso ha dire loro che sono “sentinelle per la legalità” se poi non diamo loro parola? Non staremo forse educandoli a non dare peso a ciò che si dice?
Con questo terribile dubbio, rientro a casa.
Irene, mia figlia, è triste e io con lei.
Francesca Campagna http://fravolacolcuore.com/