Il testo su cui dovremo pronunciarci con il referendum si dice da più parti che prevede un rilancio del ruolo delle autonomie che passa dal ridimensionamento delle competenze delle regioni, l’abolizione delle province e il recupero della supremazia dello stato.
Vorrei tornare sull’argomento ripercorrendo taluni passaggi di qualche vicenda passata a cui, ad esempio, ha fatto riferimento recentemente Piero Fassino dicendo che già nel 1976 il Pci era per l’abolizione delle province a cui si è pervenuti solo da poco con decreto. Aggiunge Delrio padrino del decreto che ora ‘si avvera il sogno di un Senato che dia voce alle autonomie locali’. Come scrive Violante ora ‘lo Stato può intervenire al posto di una Regione quando bisogna tutelare l’interesse nazionale oppure l’unità giuridica o economica della Repubblica’. In Senato tuttavia le Regioni potranno rifarsi compensando questa riduzione dei poteri.
Non può sfuggire che né nell’intervista di Filippeschi, né in quella della Serracchiani e neppure nell’ampio intervento di Violante su l’Unità vi sia alcun riferimento alle regioni speciali. Stranamente perché specie dopo qualche beccata polemica in cui fu coinvolto anche Enrico Rossi si era tornati a parlare di ‘privilegi’ che era l’ora di superare. Invece nessuno ha avuto da ridire sul fatto che mentre alle regioni ordinarie si fa barba e capelli quelle speciali sono ignorate e restano con tutte le loro competenze inalterate. Eppure anche qui come per le province ci sono precedenti che sarebbe bene ricordare perché alla loro ‘diversità’ negli anni ottanta fu dedicata una indagine parlamentare della commissione bicamerale per le questioni regionali che si concluse con un documento critico soprattutto sul loro rapporto con gli enti locali ma riconoscendo che la loro ‘diversità’ era una ‘ricchezza del paese’ come titolò Rinascita un suo articolo di commento ( aprile 1986). Ricordare qualche precedente anche non proprio recentissimo su vicende che in troppi cercano di presentare come frutto di un risveglio miracoloso dopo un lunghissimo sonno potrebbe aiutarci ad evitare cantonate in nome della ‘novità’.
Partiamo dalle province. Nel 1976 l’on Biasini segretario del Pri scrive ai segretari dei partiti sull’espansione delle strutture di decentramento democratico previste da progetti in discussione. Si parlava dei comprensori che erano giudicati positivamente ma ponevano il problema della soppressione delle province. Zaccagnini risponde condividendo il timore che non si può comunque pensare ad una duplicazione di strutture provincia e comprensorio. Berlinguer nella sua risposta scrive che il PCI è pronto ad esaminare in concreto la possibilità di andare ad una ravvicinata soppressione della Provincia, evitando soluzioni tortuose’ e non identificando le Province nei Comprensori perchè avremmo una moltiplicazione delle Province stesse. Siamo nel 1976. L’approdo del confronto serrato che ne segui tra le forze politiche ma anche all’interno dei singoli partiti approderà alla XXVI Assemblea delle Province del 14 gennaio del 1982. L’Unità del giorno prima pubblicherà la lettera di Berlinguer al convegno dell’UPI che io avrei illustrato a nome del partito. La scelta è chiara; siamo a favore di un ruolo forte delle regioni ( legislativo) e degli enti locali. Il nuovo ente intermedio –la Provincia-che resta elettivo aiuterà e sosterrà i comuni e le loro aggregazioni.
Insomma le province non vengono soppresse ma viene riformato l’intero sistema autonomistico e quindi decollerà un nuovo decentramento che rafforzerà il ruolo delle comunità locale non premiando il centralismo.
Non sarà male ricordare perciò viste le polemiche su cosa discutere nelle feste dell’Unità che il PCI avviò questo confronto sulla base di una riunione nazionale sulle province che ebbi l’onore di introdurre come responsabile del settore. Fu tutto pubblicato sulla stampa di partito e risultava chiarissimo che nel dibattito le polemiche erano state vivacissime. Lo ricordo volentieri perché oggi trovare documenti analoghi sul dibattito in corso è impresa vana e soprattutto non appare niente affatto ‘normale’ dire come la si pensa senza essere gufi da rottamare.
Eppure se sulla vicenda, ad esempio, delle province si fosse tenuto conto dei ‘precedenti’ non sarebbe stato difficile prevedere che l’abolizione con decreto dell’ente intermedio elettivo per rimandare tutto all’area vasta che nessuno sa cosa sarà e che ha già creato un sacco di problemi e di guai proprio alle autonomie fortemente azzoppate forse si sarebbe evitato uno scivolone dannoso. Al danno si aggiunge la beffa se si continua a presentare l’abolizione delle province come la dimostrazione dei vantaggi del Si. Chi e causa dei suoi danni ha poco di cui vantarsi.
Concludendo vorrei in particolare che il partito da quelle lontane esperienze traesse almeno una lezione; che un partito deve avere sedi dove propri esponenti con nome e cognome rispondono di quel che si fa e si decide non in clandestinità.
Renzo Moschini