Il dibattito in corso nel P.D. su elezioni, congresso, segreteria, maggioranza e minoranza presenta motivi di interesse anche al di là del merito interno al partito: investe, infatti, la questione della democrazia e delle sue forme rappresentative.
Si deve subito sottolineare una radicalizzazione –operata dall’attuale gruppo dirigente- della tendenza a ritenere che la maggioranza -quale che sia la sede in cui risulti prevalente- “piglia tutto” (come si diceva da ragazzi): sia la linea politica, sia la scelta degli strumenti, sia le persone che devono realizzarne la volontà (sempre più volontà assoluta). La dialettica interna si limita al “contarsi”, e la litania ricorrente è “si discute, ma poi tutti sono impegnati a fare quel che decide la maggioranza”. E’ un curioso modo di ragionare.
“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Costituzione): dunque ‘associazioni libere’, non eserciti, non ordini religiosi; col fine di ‘concorrere a determinare la politica nazionale’, quindi per loro natura aperti alla dialettica e alla mediazione. Mediazione con posizioni esterne ma, direi a maggior ragione, fra le posizioni interne. Si enunciano le diverse posizioni, si discute, si cercano i punti comuni –che ci devono essere, perché altrimenti non ci sarebbe stata ‘associazione’- si cerca di cogliere i tratti rilevanti di ciascuna di esse; e se ne elabora una nuova che rappresenti le idee le volontà del maggior numero (possibilmente tutti) dei ‘concorrenti’ –che sono quelli che corrono insieme verso la stessa meta-. Il massimo della capacità d’incidenza che un partito sviluppa deriva dalla forza di condivisione sviluppata nei partecipanti, e questa condivisione è l’obiettivo principale di coloro che guidano il partito, anch’essi scelti per la loro capacità di rappresentare idee e volontà di tutti.
Non voglio allungare troppo il brodo. Ma mi sembra chiaro che il criterio più volte espresso dal gruppo dirigente PD – “noi ascoltiamo tutti, ma poi la maggioranza decide e tutti devono impegnarsi a dar corso alle decisioni prese”- fa riferimento a una concezione agonistica della dialettica politica, e ignora il passaggio fondamentale della “sintesi”, appartenente alla prassi tradizionale ‘moderna’ di ricercare il massimo consenso possibile (il vecchio, caro Illuminismo della Ragione, prima che arrivasse il ‘postmoderno’ delle Emozioni).
E’ vero che di discutere non si finirebbe mai, e invece il nostro tempo ha necessità di azioni rapide e incisive. Ma se non si è costruito il consenso, perché mai chi rimane ‘sconfitto’ dovrebbe accodarsi alle decisioni del vincitore, se queste non rappresentano i suoi interessi e i suoi desideri, o –peggio- li contrastano. Ci si associa per fare ciò che ci accomuna. Quel che ci divide lo si può ben fare ciascuno per sé.
Intendo dire che la democrazia è molto più complicata dell’idea che “chi vince comanda”. In realtà “comanda” chi ha la forza –nella storia è sempre stato così-; e dove non ci sono eserciti o polizie –dove c’è “democrazia”- la forza risiede nella capacità di persuadere gli altri della giustezza del proprio pensare e agire.
Ovvero, nella capacità di sottoporre al giudizio di tutti il proprio pensiero e i propri programmi, e di ottenere il riconoscimento che pensiero e programmi sono “equi e giusti”. E non una volta per tutte, ma con una certa continuità, perché l’unica capacità operativa risiede nella forza trainante del consenso ‘profondo’ ottenuto, mantenuto intatto dalla verifica della consequenzialità dell’operare.
Certo è una faticata micidiale. Ma a mia conoscenza le scorciatoie hanno sempre avuto bisogno di servizi segreti e di eserciti. O di atti di fede (“auto da fé”). O di Guru…
Luigi Totaro
(nella foto: ritratto di Voltaire)