I piccoli comuni rappresentano la grande maggioranza degli 8.000 comuni italiani. Piccoli rispetto al numero di abitanti delle realtà cittadine e metropolitane, ma spesso grandi sia nella loro estensione geografica, sia in riferimento alle risorse economiche, sociali e culturali che sono conservate nei loro confini.
I nostri padri costituenti, con chiara in mente la lunga tradizione civica dei comuni, inclusero tra i principi fondamentali a cui avrebbero dovuto ispirarsi le politiche della Repubblica il riconoscimento del ruolo delle autonomie locali, attraverso l'adeguamento dei principi e dei metodi della legislazione “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (art. 5 della Costituzione).
Il Comune è l’elemento centrale di una solida tradizione civica italiana che dal Medioevo giunge fino alla Costituzione repubblicana.
In Italia, più che altrove, i territori locali fondano il loro profilo istituzionale sul Comune, che rappresenta il livello primario della democrazia e della rappresentanza politica.
Specialmente nei piccoli comuni, il Municipio e il Sindaco sono un punto di riferimento insostituibile per i cittadini e simbolicamente il Gonfalone rappresenta un importante riferimento identitario in una società sempre più priva di punti di riferimento collettivi.
In una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento dai cittadini dai luoghi decisionali, dall’irruzione dei poteri economico-finanziari nei processi di governo, dal diffondersi di sentimenti diffusi di antipolitica che alimentano i populismi, è necessario un rafforzamento del ruolo dei comuni, cioè l’esatto contrario del loro smantellamento.
Bisogna adoperarsi per il mantenimento di un presidio democratico dentro le comunità locali, per il rispetto e la valorizzazione delle identità locali e per il rilancio del ruolo dei Consigli Comunali come luogo di partecipazione politica.
Dobbiamo sostenere i piccoli comuni nella loro attività di erogazione di quei servizi fondamentali ai cittadini che, per caratteristiche intrinseche, enti di più grandi dimensioni non riuscirebbero a fornire con altrettanta efficacia e puntualità. Un buon governo locale non riproducibile su dimensioni troppo vaste.
Se i piccoli comuni sono in difficoltà dobbiamo aiutarli a vivere, non a morire.
Purtroppo invece il modo in cui oggi molta parte della classe politica italiana affronta il tema delle fusioni dei comuni, proponendone in alcuni casi l’obbligatorietà per legge, in altri promuovendo processi che ne sanciscono l’obbligatorietà di fatto, segna un insostenibile attacco alle autonomie locali ed all’esistenza stessa dei piccoli comuni.
Un attacco condotto sulla base di un approccio contabile-amministrativo che, non solo non tiene conto di altre dimensioni, ma soprattutto non si fonda su alcuna evidenza oggettiva di dati economici e finanziari. I quali dati mostrano come in realtà l’impatto dei costi dei piccoli comuni nella spesa pubblica nazionale sia del tutto marginale, sia in valore assoluto che percentuale. Altri sono i centri di spesa improduttivi nel nostro Paese.
Assistiamo ad analisi fondate solo sul parametro del numero degli abitanti, che impediscono di comprendere come i processi di fusione, soprattutto nelle zone rurali, possano creare, o aggravare, le criticità connesse all'estensione territoriale dei comuni, la cui eccessiva ampiezza incide negativamente sull'efficienza nell'erogazione dei servizi ai cittadini.
Ci troviamo di fronte a proposte che non tengono conto delle profonde differenze tra le aree del Paese, che conta Regioni come la Lombardia con un numero di comuni pari a 1.500 con una media di 6.500 abitanti o il Piemonte con i suoi 1.200 comuni con una media di 3.600 abitanti, ed altre come la Toscana che invece ne conta 279 con una media di 13.450.
Oppure ad attacchi strumentali condotti utilizzando numeri per creare sensazione, facendo ritenere che gli 8.000 comuni italiani, circa uno ogni 7.500 abitanti, siano un’insostenibile anomalia, quando ad esempio la Francia, Stato tradizionalmente centralizzatore, ne ha 36.000, cioè uno ogni 1.700 abitanti, e non si sogna di mettere in discussione l’esistenza dei piccoli Comuni, pur pretendendo un’organizzazione sovracomunale dei servizi.
Le politiche di razionalizzazione devono infatti riguardare la gestione dei servizi comunali, dai quali derivano i costi e dipende l’efficienza dell’azione amministrativa, e non gli organi di rappresentanza politica.
Sui costi dei quali organi politici si alimentano demagogie, nascondendone la loro reale portata, spesso così esigua da configurarli nella sostanza come un’attività condotta localmente per mero spirito di volontariato.
Le necessarie e improrogabili politiche di razionalizzazione, valorizzazione e coordinamento di territori e comunità debbano essere perseguite, con convinzione e determinazione, utilizzando gli strumenti delle associazioni dei servizi, attraverso convenzioni e soprattutto nelle Unioni dei Comuni.
Le unioni e le convenzioni vanno considerati un modello istituzionale stabile - non qualcosa di propedeutico alla fusione – e devono assicurare servizi efficienti con minori costi. Laddove non si raggiungano questi obiettivi ciò non può essere pretestuosamente imputato al modello associativo in quanto tale, ma semmai alla mancanza di convinzione negli Amministratori o alla inadeguatezza delle relative previsioni normative nazionali e regionali, e non può dunque costituire un alibi per invocare fusioni.
Le fusioni tra comuni, invece, devono essere portate avanti solo dove esista una chiara, inequivocabile ed esplicita volontà, espressa direttamente dalle singole popolazioni interessate, conseguente a situazioni di reale marginalità abitativa e ad una riconosciuta perdita di coesione sociale e del senso di comunità.
Pino Coluccia