Nella vita di una comunità esistono momenti fondamentali in cui è necessario un surplus di coraggio per modificare una situazione insoddisfacente.
Pur non risiedendo nel comune di Rio Elba o di Rio Marina, sono legata al territorio da motivi affettivi e penso che a volte, dall’esterno, con un pizzico di prospettiva e di oggettività in più, le problematiche si percepiscano meglio.
Da decenni mi capita di ascoltare le lamentele di parenti e amici riesi sulle rispettive amministrazioni; ora si offre loro la possibilità di un cambiamento vero, non di palliativi destinati a incidere solo superficialmente sulla gestione del quotidiano: la riunificazione del comune di Rio Elba con quello di Rio Marina e tale occasione è di quelle da non perdere.
La Terra di Rio ha avuto per secoli, dal suo sorgere, una fisionomia economica compatta, data dalle miniere, dalla marineria, dall’agricoltura, dalla pesca, dall’artigianato.
Solo per motivi contingenti – e probabilmente miopi – alla fine dell’Ottocento – poco più di cent’anni fa dunque – è avvenuta la separazione, che ha fomentato campanilismi e reciproche ostilità: tutti abbiamo conoscenza di memorabili sassaiole e zuffe, specialmente in occasione di festività come quella di S. Caterina, in cui la legittima affezione al luogo di culto delle due comunità si scontrava con l’opposizione dei riesi del “coccolo in su”, che ne rivendicavano l’esclusivo monopolio.
Ma una distanza geografica tanto esigua tra i due paesi, unita al comune patrimonio storico e culturale, ha continuato comunque ad operare attraverso i matrimoni, che fondevano piaggesi e riesi e l’esercizio, in diversa proporzione, delle medesime attività – marinai minatori contadini commercianti artigiani –.
Fino al secondo dopoguerra, quando è cominciato il lento ma inesorabile declino delle miniere e al contempo si è affermato il turismo come quasi esclusivo settore trainante dell’economia elbana, portando anche le due comunità riesi, pur con maggiore lentezza rispetto al resto dell’Isola, a valorizzare anzitutto le rispettive “costiere” (Cavo, Nisporto, Nisportino) e a proporsi agli ospiti come luoghi di villeggiatura.
Dunque, ancora omogeneità nel tessuto economico e in quello culturale, ma ancora separazione amministrativa e due “piccole patrie”, che confondono il suono dei loro campanili, ma testardamente restano divise.
Ma oggi, in un mondo globalizzato, dove contano qualcosa soltanto le grandi entità sovranazionali, tanto che tutti auspichiamo un’Europa più forte e coesa, ha senso che, all’interno di un singolo stato nazionale, esistano comuni di poche migliaia – a volte centinaia – di persone, che insistono nella loro autonomia, rifiutandosi di prendere in considerazione i vantaggi economici, più volte spiegati da autorevoli interventi?
La frammentazione non paga mai: lo vediamo anche in questi giorni con la vicenda catalana, in cui le spinte all’indipendenza fanno fuggire gli investitori e cambiare sede alle banche.
E tornando al nostro Scoglio, a chi giovano le piccole patrie? Solo ad agitare, fuori del tempo e dello spazio che ci è dato di vivere – qui e ora – la bandiera di uno sterile “campanile”, di un identità che per esprimersi ha a disposizione solo pochi chilometri quadrati? O forse a soddisfare soltanto le velleità di ambizione politica e gli interessi di potere di pochi?
Accettare l’unificazione, ritornare ad un’unica Terra di Rio è una scelta matura e responsabile: è sganciarsi dai vecchi pregiudizi, rinsanguare comunità asfittiche, raddoppiare la base elettorale, selezionare una classe dirigente locale più preparata; è vedersi attribuire risorse che vengono negate ai microcomuni, è proiettarsi nel futuro – prima che gli accorpamenti vengano imposti dall’esterno – dimostrando fiducia nel rinnovamento e in una organizzazione più razionale e coerente del proprio territorio.
Maria Gisella Catuogno