Doverosa premessa; la mia esperienza e competenza derivano da un lungo percorso politico-istituzionale (a cui ho dedicato una breve autobiografia).
Iniziato qui sul piano comunale come vicesindaco nel 1969, poi Presidente della Provincia dal 1970 al 76, poi Camera dei deputati dal 1976 al 1987 in Commissione affari costituzionali di cui sono stato anche per una decina di anni vice Presidente. Al rientro Vice presidente per diversi anni del Parco di San Rossore.
Questo percorso è stato via via arricchito di specifiche esperienze; ho diretto riviste come Il Comune democratico di Legautonomie ,di cui per alcuni anni ho seguito anche una Agenda annuale sull’ambiente curata da Sabino Cassese; come vice ho diretto Le autonomie poi Province la rivista dell’Unione della Unione delle province, Parchi di Federparchi e poi Toscana Parchi fino alla attuale Collana sulle Aree naturali protette dell’ETS di cui sono usciti una quarantina di volumi.
Non intendo presentare il curriculum per un concorso ma il quadro sommario che consente –a me ha consentito- di concorrere alla approvazione di alcune leggi ambientali e verificare concretamente i risultati della loro attuazione e così anche la capacità del sistema istituzionale di gestirle a attuarle.
E qui entra in gioco la Costituzione che in questi anni ha dovuto fare i conti –non sempre con successo come possiamo vedere anche in questa fase-con le disposizioni relative a quella leale collaborazione costituzionale risultata sempre difficile. Difficile e ostica perché lo Stato è stato in troppe occasioni non disposto a rinunciare ad una tradizione e cultura centralistica a cominciare dal grave ritardo nella istituzione delle Regioni avvenuta nel 1970. La loro assenza ha consentito allo stato di gestire gli enti locali Province e comuni come uffici prefettizzi. Come Vice Sindaco e poi come presidente della provincia ne so qualcosa perché anche per comprare una biro bisognava chiederne l’autorizzazione all’organo di controllo della prefettura. Con il 1970 specialmente in Toscana come in Emilia Romagna, Marche e Umbria cominciarono naturalmente a cambiare.
Ricordo tuttavia quando nel 1969 come Comune incontrammo Ponti per avviare impegni di insediamenti di nuove attività a Tirrenia, Calambrone e Ospedaletto dove predisponemmo –era la prima volta- un territorio per insediamenti economico-sociali sottratti alla speculazione del suolo perché acquisiti e attrezzati dal comune in base ad una delle prime nuove leggi sul territorio la 167.
Negli anni immediatamente successivi fu approvata la legge Merli sull’inquinamento che permise agli enti locali e specialmente alle province di avviare finalmente programmi e interventi con cui mettemmo mano a nuovi progetti e interventi contro gli effetti rovinosi di attività come quelle nella zona del cuoio San Croce – San Miniato che attraverso l’Arno stavano già danneggiando seriamente anche il nostro litorale.
Seguì una importante legge sui bacini idrografici la 184 che prevedeva per la prima volta dei piani che diventarono in seguito europei di fatto sparendo o assumendo un nuovo carattere che di fatto non impedirono di costruire sugli argini dei fiumi con i noti effetti che ben conosciamo anche in Toscana.
Altre leggi molto importanti sul piano della gestione di nuove politiche ambientali non più settoriali come quella approvata nel 1991 sui Parchi ebbero un percorso ben più lungo e complicato. Più complicate e nuove erano naturalmente anche le ragioni che bloccarono ripetutamente tardandone il faticoso approdo finale.
Tra le molte ragioni vi era soprattutto che per i parchi vi era un precedente che risaliva a prima della Costituzione e della guerra, ossia erano stati istituiti e operavano i Parchi nazionali d’Abruzzo e del Gran Paradiso gestiti dal ministero dell’agricoltura. Il modello si rifaceva a quella svizzero dell’Engadina che isolava soprattutto i boschi separandoli da tutto i resto a partire dalle comunità locali che ovviamente contestavano o comunque non potevano certo gradire la loro estromissione.
Un significativo punto di svolta culturale fu merito in particolare del naturalista Valerio Giacomini già con alcuni interventi che precedettero e anticiparono Uomini e Parchi scritto dal suo collaboratore architetto Valerio Romani per l’improvvisa morte di Giacomini a cui come Federparchi intitolammo il Centro Studi di Gargnano sul Lago di Garda in parte poi trasferito a Pisa.
Che si trattasse di una vera svolta lo si capì subito anche dall’accoglienza che persino alcune personalità ambientaliste gli riservarono. Ricordo per tutte quella del presidente della Regione Lazio del WWF che disse che il libro andava intitolato Uomini o Parchi.
Ma che vento tirasse lo si avvertì già prima anche in sede parlamentare in Commissione bicamerale per le questioni regionali che in quanto espressione di Camera e Senato con presidenza senatoriale era tenuta a pronunciarsi preventivamente su tutte le proposte di legge che riguardassero entrambi rami del parlamento.
Ne feci parte dal 1976 in rappresentanza del PCI e li cominciarono a circolare le prime ipotesi di legge nazionale sui parchi che non andavano oltre il modello Abruzzo e Val d’Aosta e cioè una area protetta gestita dal Ministero dell’Agricoltura e dal Corpo Forestale dello Stato. Un modello che anni dopo sarebbe stato riproposto per le aree protette marine con il Ministero della Marina Mercantile. Ricordo a quest’ultimo riguardo lo scontro polemico che ebbi sull’argomento in Commissione Affari Costituzionali della Camera con il ministro Calogero Mannino.
Tornando alla Bicamerale ricordo che la vicenda per un bel po’ non riuscì ad uscire da questi binari. Anche alcune consultazioni a cui ricorremmo si mantennero in ambiti il più possibile ‘sicuri’ da soprese scomode.
Quello che comunque, sebbene a fatica, andava maturando nel paese e anche in parlamento dovette lasciare il passo, ad esempio, a quella esigenza che aveva già posto Valerio Giacomini quando denunciò che le aree protette come quelle finora istituite prive di qualsiasi cioè senza alcuna zonazione non avevano senso in quanto non in grado di affrontare una gestione concretamente capace di governare il territorio. Si trattò ovviamente di un cambio di marcia e non solo per l’ambientalismo. Lo fu in particolare per le istituzioni che avrebbero dovuto gestire ossia governare sul piano nazionale, regionale e locale di questa nuova partita.
E se i protagonisti sia pure con grave ritardo erano finalmente entrati sulla scena -e mi riferisco ovviamente alle Regioni ma anche agli enti locali non più confinati in un ruolo burocratico e marginale-la dice lunga il fatto che quando nel 1991 si arrivò alla approvazione del testo della 394 si ‘scoprì’ che faceva riferimento solo ai parchi nazionali sebbene nel frattempo varie regioni avessero istituito autonomamente parecchi e importanti parchi regionali (vedi San Rossore, il Ticino, la Mandria che erano andati ad aggiungersi a quelli delle Regioni a Statuto Speciale e a noi amministratori di Parchi di istituire un Coordinamento nazionale dei parchi regionali). Ricordo la consultazione finale alla Camera a cui partecipai in rappresentanza dell’UPI le giuste proteste delle regioni che riuscirono all’ultimo momento a superare questa estromissione. Regioni, come avrebbe poi detto il Presidente della Repubblica Scalfaro nel suo messaggio alla Prima Conferenza Nazionale dei Parchi di Roma, lo Stato avrebbero essere dovute ringraziate per la ‘supplenza’ svolta.
Prese avvio allora quella nuova stagione politico, istituzionale e culturale destinata pur tra non poche difficoltà, intoppi a cambiare il quadro nazionale delle nostre aree protette ripiombato a partire dalla ministra Prestigiacomo in un tunnel da cui non solo non è più uscito per molti versi è caduto sempre più nel buio a partire dal Parlamento che da diversi anni sta armeggiando per affondare la 394.
Già la prima Conferenza Nazionale quella di Roma aveva dimostrato che proprio il ministero aveva dimostrato i suoi limiti che sarebbero stai confermati sia quando alla Prima festa nazionale dei Parchi Regionali in San Rossore nella Conferenza stampa di presentazione dise che i veri parchi erano quelli nazionali a cui seguì l’altra brillante idea quando sostenne che la 394 non prevedeva l’affidamento della gestione delle aree protette marine a tutti parchi ma solo a quelli nazionale che lui applicò a Portofino smentito poco dalla Corte dei Conti.
Ma il peggio non era ancora arrivato e ci penso appunto la Prestigiacomo quando dichiarò –facendo seguire subito la sua attuazione- che lo Stato non poteva più farsi carico delle spese dei parchi che in aperta violazione della legge avrebbero dovuto procurarsi le palanche favorendo interventi privati a pagamento con tanti saluti alla loro sostenibilità.
Da allora si è rimasti inchiodati a questo schema con il risultato che abbiamo parchi commissariati da anni senza presidente e spesso anche senza direttore e ovviamente senza piano e spesso persino senza benzina per le guardie. La legge definita non a caso ‘sfascia parchi’ per fortuna non è stata approvata ma resta buio peso. E non possiamo consolarci perché alcuni nostri parchi di redente sono stati premiati sul piano europeo. Il quadro nazionale specie dopo i terremoti e i disastri ambientali resta allarmante e la Terza Conferenza Nazionale che si impone da tempo è stata fin da subito cancellata perché avrebbe messo i panni in piazza. Con il ministro Orlando si era aperta una finestra che Galletti ha stoppinato.
Qui siamo giunti al presente e la partita non riguarda più principalmente e solo Parlamento ma le Regioni, gli enti locali e le forze politiche che sono sempre più andando sparendo dalla scena. Ma al solo ambientalismo per quanto vivace, attivo e responsabile non compete gestire le istituzioni in cui devo ovviamente essere coinvolti – e anche questo avviene sempre meno-ma che non sono titolari del governo del territorio.
Renzo Moschini