“Non accettiamo lezioni da nessuno - da voi, da loro - su questo o su quello”: è una frase che continuamente ci accade di sentire da politici o imprenditori o sindacalisti o giornalisti, ecc. Francamente non riesco a capire: perché, visto che se ne presenta l’occasione, non approfittarne per imparare qualcosa che non si sa, o anche che si conosce ma che possiamo approfondire? Chi fa il mio lavoro trascorre propriamente tutta la vita a imparare, a prendere lezioni ogni volta che se ne presenta l’occasione, per raccogliere materiale di conoscenza da riproporre a chi ci capita di incontrare entrando in conversazione, per diffondere conoscenza in spirito cooperativo.
Ma non mi sfugge il carattere metaforico di quel rifiuto di “accettare lezioni”, che richiama alla mia memoria “vecchia” la vecchia canzone di Caterina Caselli “Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu”: nella società della “performance” nessuno deve mettere in dubbio che i miei comportamenti siano insindacabili. Malgrado quello che si dice sul rapporto fra “performance” e “competizione”, la società del nostro tempo tende a essere autoreferenziale; o comunque gli individui che ne fanno parte sempre più tendono a diventarlo.
Anche in questo l’epidemia del Covid 19 ci offre un esempio significativo. Gli scienziati, presentissimi e numerosissimi -come è giusto- hanno esibito di volta in volta certezze più o meno assolute, ben sapendo che la loro professione procede faticosamente fra molte domande per giungere a poche risposte, sempre provvisorie. Ma la richiesta che veniva loro rivolta non riguardava lo stato della “conoscenza”, ma la necessità di consolare, di confortare, di spaventare, di persuadere il “popolo” a comportamenti “corretti”. Un po’ come quando si invitavano i predicatori a tenere le omelie per le continue occasioni di pericolo o di disagio, e quegli uomini di scienza cercavano di essere “edificanti”. Poi, per fortuna, i nostri scienziati tornano nei loro laboratori e nei loro reparti ospedalieri, e finalmente ricominciano a mettere in dubbio tutte le loro precedenti conclusioni trovando ulteriori elementi di conoscenza; e magari, tornando a parlare in televisione, dicono cose non perfettamente coincidenti con quelle dette qualche giorno prima, perché intanto hanno fatto un passo in avanti. Perché gli scienziati non hanno problemi a “prendere lezioni” da chi ha da dire qualcosa di importante, e a modificarele loro posizioni.
Ma chi chiede agli scienziati di intervenire sui mezzi di comunicazione per svolgere opera di convincimento, è chi è pressato dall’urgenza di prendere decisioni che riguardano i cittadini e che possono essere anche “impopolari”. E si ritorna alla performance. Se in gioco è la necessità di ottenere consensi -e mai come oggi l’ottenimento del consenso è urgente e anche violento (like)-, non ci si può limitare alla ricerca della verità o della massima probabilità. Bisogna agire anche con la persuasione che ciò che si pensa, si decide, si trasforma in provvedimenti e decisioni normative, è la via obbligata per il bene comune: bisogna “persuadere”, “insegnare”, “dare lezioni”; e polemizzare, scontrarsi, opporsi, trovare consensi.
Quelle “lezioni” che non si accettano da altri, le si impartiscono a coloro che si vogliono attrarre dalla propria parte, con atteggiamento ugualmente autoreferenziale. Perché quello che conta è il “gradimento” che si riesce a ottenere dal proprio pubblico. E se le informazioni vanno accomodate per essere più comprensibili, le si accomodano. Le si correggono. Le si inventano (Fake News). Perché quel che conta è verificare la conferma del consenso di cui si gode, e che si potrà spendere ben al di là della dell’occasione pur grande, pur grave, che appartiene all’attualità.
La performance. Si è introdotta nella scuola sostituendo le “conoscenze” con le “competenze” per formare non dei giovani ma del “capitale umano” fresco per ottimizzare la produttività. Si è modificata la didattica e la valutazione, e si è stabilito che la scuola deve funzionare come un’azienda: si è “razionalizzato” il tempo scuola per incrementarne la produttività, riequilibrando il peso delle “materie” e introducendo le nuove tecnologie non tanto come “strumenti” del lavoro della scuola quanto come “competenze” da utilizzare nella vita professionale, nel lavoro. La valutazione è così divenuto lo strumento più opportuno per disegnare da subito la “carriera” che i giovani studenti percorreranno nella loro vita adulta: le competenze indirizzeranno le scelte più opportune per scegliere progressivamente i corsi scolastici, l’università, il lavoro -che incontrerà la “domanda”, perché tutta l’organizzazione è ordinata a far coincidere domanda e offerta, secondo “modelli” continuamente perfezionati.
Ma chi sa? Se anche i “modelli” elaborati per la scuola fossero autoreferenziali, fossero cioè ordinati a giustificare l’ideologia della società che li ha prodotti -o commissionati-, e promossi e a poco a poco imposti, senza verifiche o dibattiti o confronti?
L’evento dell’epidemia ha promosso la Didattica a distanza (Dad) con una naturalezza straordinaria, quasi spontaneamente; e si è pensato di aver trovato la soluzione più ovvia all’impossibilità di praticare la didattica in presenza. I risultati sono ora all’esame di tutti i cittadini. Ma già si sono manifestate alcune evidentissime falle, e non ideologiche. Superlavoro per i docenti, difficoltà di lavoro per gli allievi, problemi logistici e organizzativi, incertezze nelle valutazioni. Eppure il mondo della scuola, complessivamente, non ha avuto esitazioni a “prendere lezioni” per portare a compimento questo nuovo esperimento. Non mi sembra che si possa dire altrettanto per quanto riguarda gli “esperti” e i decisori.
Che nostalgia per quando Battisti cantava “ti amo forte e debole compagna, che qualche volta impara e a volte insegna”.
Luigi Totaro