REPUBBLICA ADDIO? Finalmente! E’ accaduto quel che doveva accadere da anni, e speriamo che a nessuno venga in mente di “rimediare”. E’ stato conclamato lo stato di coma irreversibile del Partito Democratico, finora tenuto in vita con palliativi (primarie su primarie) fino a sabato, con la speranza che gli impercettibili movimenti di qualche muscolo che sembrava di avvertire fossero davvero segni vitali; si era pensato persino a una miracolosa ripresa (sondaggi preelettorali); si voleva credere che a forza di dirlo la guarigione ci sarebbe stata. Ma il risultato elettorale prima, il generoso quanto vano tentativo di governo Bersani poi, e infine la tragicommedia dell’elezione del Presidente della Repubblica in chiusura hanno strappato il velo. Il Partito Democratico è clinicamente morto, e la cosa più intelligente –e più generosa- da fare è espiantarne gli organi ancora vitali e renderli disponibili per dei trapianti.
Il paziente era malato dalla nascita, come sovente accade ai figli nati da genitori consanguinei, anche se non di grado strettissimo: la comune origine cristiana cattolica (B. Croce, 1942) è stata forse la causa prima; la storia ha fatto il resto. Dall’art. 7 della Costituzione, ai primi Governi repubblicani, al consociativismo nicodemitico fino al boom economico, la “tolleranza” dei democristiani e la progressiva rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria della sinistra hanno alimentato la crisi e le contraddizioni della società italiana, che si muoveva all’interno della crisi generale del globo dopo la “ricostruzione” postbellica –quando, finita l’emergenza, si ricomincia a considerare la necessità di avere idee-guida progetti-guida, e si vedono di nuovo differenze e schieramenti-, con la peculiarità della presenza politica della Chiesa. La rottura avvenne nel 1968, col “‘68”, e fu lotta dura senza esclusione di colpi, con morti e feriti. Dieci anni di piombo che produssero l’obliterazione di una generazione di giovani, e ci riconsegnarono al consociativismo formalizzato dell’“Unità nazionale”, per il brevissimo tempo che precedette l’azione di Bettino Craxi volta allo sgretolamento del PCI, già in crisi a fine ’70, e a ostacolare l’aggregazione del mondo del lavoro (CGIL di Lama)e dell’intelligenza diffusa dei giovani del ’68. Intanto nel mondo scoppiava la vittoria delle politiche iperliberistiche della Thatcher e di Reagan, e iniziava la danza macabra della finanza creativa, che sarebbe diventata sempre più creativa fino ai nostri giorni.
Agli inizi degli anno ’80 l’Italia vedeva un Partito Comunista in cerca di una strada che correggesse il trend generale senza però lasciare spazio a progetti antagonisti; un Partito socialista ormai distante dai fratelli separati comunisti, non per oblio del doloroso distacco del 1921 (oblio che ancora non c’è) ma proteso verso la conquista di un ruolo significativo di potere dalla posizione mediana fra PCI e DC, grazie alla spregiudicata intelligenza di Bettino Craxi; la Democrazia cristiana, dilaniata dalle sue poderose correnti, ma con una spinta inerziale che sembrava garantirle l’immortalità; lo sparuto gruppo dei laici –Liberali, Repubblicani-, pochi di numero ma vicinissimi a centri economici e finanziari di grandissimo peso; una destra grintosa e impotente, di fatto isolata da tutti anche se tenuta di conto dai “Servizi” dello Stato. Poi i gruppi simbolo, come i Radicali o gli irriducibili della Sinistra antagonista.
La Rivoluzione dei giudici di “Mani pulite” avrebbe spazzato quasi tutto quel mondo politico in pochi mesi, senza però toccare i centri reali del potere economico e finanziario, che stavano fuori dalle competenze giudiziarie. I Comunisti, perché più organizzati e forse meno compromessi, ne uscirono meglio degli altri. I Socialisti furono durissimamente colpiti, e confluirono nella nuova formazione politica creata da un Silvio Berlusconi in gravi difficoltà, ma che prometteva una pronta ripresa e conseguenti sicurezze economiche e la condivisione di un appassionato livore anticomunista. La Democrazia cristiana di frantumava in vari tronconi, in parte confluiti nel partito di Berlusconi come la potente “Comunione e liberazione”, in parte disponibile all’alleanza con i comunisti –eredità del Compromesso storico degli anni ’70- portando in dote il controllo delle maggiori banche e del management delle maggiori industrie: con la prestanza politica dei comunisti c’era da provare a creare una forza di contrasto al neoliberismo conclamato da Berlusconi e dai cattolici “clericali”.
Allora il Partito Comunista Italiano ritenne necessario predisporsi all’incontro storico, al Compromesso storico di Berlinguer e Moro –ma forse più di Berlinguer che di Moro-, ahimè senza però leader come Moro e Berlinguer. Cancellò il nome Comunista (1991), poco spendibile dopo la caduta dell’URSS; e si predispose a un nuovo consociativismo con chi a torto era ritenuto l’erede della Democrazia Cristiana, ovvero Silvio Berlusconi, che non ha mai voluto altri soci che quelli che aveva a libro paga. La scelta, coronata dall’insuccesso, segnò all’interno del nuovo Partito Democratico della Sinistra l’evidenza di leader diversi e combattivi, e l’assenza di un “gruppo dirigente”; conseguenza fu lo scollamento del partito dalla sua base, dalle sue basi -la base operaia e sindacale, e il mondo giovanile proteso verso la nuova rivoluzione “no-global”-. Il gruppo dirigente fondamentalmente si limitava a proclamare la propria diversità da Berlusconi, che intanto devastava l’economia italiana perduto dietro i suoi problemi giudiziari e forte di un consenso inspiegabile quanto insensato, perché costruito solo sul marketing; e intanto praticava con dedizione lo sport della caccia al Capo: fatto fuori (1994) Achille Occhetto“ il coraggioso casinista della "svolta"”(M. Serra, 1992) con l’abbandono della tradizione comunista, sotto la segreteria di D’Alema diede vita all’“Ulivo” (1995), con il Partito Popolare (erede a sinistra della Democrazia cristiana) e altri per il primo governo di Romano Prodi, cattolico, in carica per due anni, fino alla fine della “desistenza” di Rifondazione comunista. Nel 1999 il partito cambiava nuovamente nome in Democratici di sinistra, segretaria Massimo D’Alema, e aderiva al PSE –Partito Socialista Europeo- tentando la svolta socialdemocratica. Finalmente una nuova edizione dell’Ulivo, con varie frange, nel 2006 sfidava e vinceva Silvio Berlusconi, ancora con Romano Prodi; e nel 2007 i Democratici di Sinistra divenivano Partito Democratico, con la segreteria di Massimo d’Alema. Dopo la prematura e sventurata fine del secondo governi Prodi (2008), il Partito Democratico faceva fuori (ma non troppo) anche colui che aveva dato vita alle due ultime forme dell’antico Partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, appunto D’Alema, che passava la mano a Pier Luigi Bersani. Subito riprendevano vigore le contrapposizioni interne, soprattutto con le componenti cattoliche (almeno due o tre), ma anche delle altre –con gli astri nascenti Letta, Franceschini, Renzi e i “rottamatori”, i “rottamandi D’Alema, Bindi, Fioroni, Marini, Veltroni, Rutelli…-. Insomma, uno vale uno.
Ma, come diceva il poeta, “all’apparir del vero tu misera cadesti”: sotto i colpi dell’inerzia e dell’incapacità di Berlusconi, l’Italia prostrata lanciò un grido di dolore, e il governo dell’insipienza e dell’immoralità cadde. Ed eccoci ai nostri giorni.
Il re-Presidente, vuoi perché consapevole della realtà di quello che è pur sempre il suo partito, vuoi per timore di fughe in avanti eccessivamente “avanzate”, invece di sciogliere il parlamento lo ancorò al sicuro ormeggio di Mario Monti, un serio professore di destra, stimato dai governi di destra di tutti il mondo per il rigore e l’intransigenza del suo pensiero liberista, e apprezzato dagli altri per la marcatissima distanza dallo stile di Silvio Berlusconi. Per noi, al disastro della sregolatezza è seguito quello dell’acritica politica di contabilità, che ha ridato respiro alla demagogia Berlusconiana e all’appeal popolare del suo antagonista Grillo, mentre il Partito Democratico consumava imbelle il credito di speranza che la caduta del governo dei nani e delle ballerine aveva aperto. Dopo lo scioglimento delle Camere, la campagna elettorale equilibrata (in equilibrio) del Segretario del PD ha portato alla vittoria degli urlatori –con le loro buone ragioni- e degli imbonitori -con i fuochi d’artificio delle “favole belle” che hanno sempre illuso le Ermioni della piccola borghesia arrivista e dei pocotenenti frustrati-. Sulla scelta del futuro governo e sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica è tornato in campo il re-presidente Giorgio I, imponendo un modulo inaccettabile per molti del PD e per i 5Stelle, ma vitale per Berlusconi e per Monti. Le divisioni eterne, che sono il sintomo clamoroso della malattia infantile del PD, hanno fatto il resto. “Piccolo Golpe”, lo ha chiamato Grillo. Io direi nuovo strappo alla Costituzione repubblicana, reso necessario dall’immobilismo dei cultori del potere per il potere, del gattopardismo senza idee, del conservatorismo della ‘moderazione’ senza prospettive. E così abbiamo Giorgio II, re-presidente; e già si parla di modifiche costituzionali verso il semipresidenzialismo, perché la democrazia è troppo faticosa. Auguri.
Da noi, all’Elba, è successo quello che era facile prevedere. La nostra è una società contadina, naturalmente conservatrice: come la Vandea in Francia, durante la rivoluzione francese; come la Baviera, come il Sanfedismo in Calabria, come il Nordest veneto e la Sicilia. La cultura contadina sceglie preferibilmente la continuità perché spesso la novità gli ha riservato condizioni peggiori: e non si rende conto che proprio la sua rinuncia a guidare il nuovo e la sua propensione a lasciarsi guidare le impediscono di contare e svilupparsi. “S’è sempre fatto così…”.
Ci vorranno anni, decenni di buona scuola perché la consapevolezza civile comprenda l’importanza dell’agire insieme per migliorare insieme. Nel frattempo un qualche governo, a Roma, deciderà che i Comuni sotto cinquemila abitanti dovranno essere accorpati. E così, ancora una volta, ci adegueremo senza aver scelto, vagheggiando il ritorno di Napoleone, nostalgici come duecento anni fa.
Luigi Totaro