Gentile Recalcati,
come vede seguo sempre con attenzione i suoi interventi, anche se non le nascondo l’apprezzamento maggiore per quelli sostanziati dalla sua esperienza professionale. Il suo di oggi (31.10) su “Repubblica” non mi è apparso particolarmente persuasivo. Va da sé che l’accostamento fra merito e sicurezza appare assai più retorica che logica, esclusivamente funzionale al suo ragionamento; a volerlo esaminare in profondo si troverebbero motivazioni complesse ma assai differenti anche per quanto potrebbe essere plausibile nella sua affermazione (chi ha conosciuto la “sicurezza” negli anni dopoguerra fino al compianto ma non rimpianto ’68 e all’esecrato G8 di Genova, forse ha una memoria condizionata a “percepire oscuramente l'uomo in divisa in quanto tale come un simbolo della repressione”, anche in contesti sicuramente mutati…).
Sul merito, ciò che condanna questa parola non necessariamente è “l’autorizzazione alla diseguaglianza e alla crudeltà della selezione naturale”, anche se vorrà concedere che storicamente si è sovente verificato che l’attribuzione di merito abbia avuto un carattere paradossalmente ereditario: penso alle carriere universitarie o manageriali o professionali -insomma alle posizioni alte della scala sociale-.
Non è esattissimo affermare che “il merito, come è noto, è sancito come valore dalla nostra Costituzione (vedi articolo 34)”: lì è citato come condizione incentivante all’intervento dello Stato: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Come dire che lo Stato investe direttamente su chi è più immediatamente in grado di remunerare il suo investimento sociale -cosa che peraltro non fa, se non in misura quasi insignificante. Ma non è certo colpa della Costituzione-. Opportunamente lei ricorda anche l’art. 3 Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Anche in questo caso la sua lettura mi pare scostarsi dalla lettera del dettato costituzionale: l’Art. 3, infatti, contenuto attiene ai diritti fondamentali, alla libertà, all’uguaglianza dei cittadini, e non ha nessun riferimento a ‘capacità’ e ‘merito’, che per loro natura non possono essere distribuiti in misura uguale fra tutti i cittadini. Mentre in nessuno dei due articoli citati compare -se leggo bene- il concetto di ‘premio’ dello Stato, come del resto non è certo una concezione premiale a impegnare lo Stato a “ridurre il più possibile quelle condizioni di diseguaglianza che tendono a favorire i soggetti al di là delle loro capacità e del loro merito”, come lei dice, affermando anzi che quello indicato è ‘compito della Repubblica’, senza ovviamente alcun riferimento alla capacità e al merito. Così, se la “rottura netta con ogni forma di familismo, di nepotismo, di casta” è un suo auspicio, non si può non condividerlo. Ma non mi pare abbia nulla a che vedere col “merito”, e dunque non è questo che “dovrebbe garantire la piena acquisizione del termine merito nel vocabolario di una nuova sinistra”.
Ma lei prosegue: “la sinistra più ideologica percepisce solo il lato neoliberale del merito come avallo di una concezione dell'esistenza come corsa per la propria affermazione individuale, concorrenza, selezione, antagonismo, egoismo, assenza di inclusione. Ma questa versione è solo una degenerazione del valore del merito che toglie davvero merito al merito”. Riguardo al suo esempio relativo alla sicurezza credo di aver sia pur sommariamente risposto. Ma l’affermazione che lei attribuisce alla “sinistra più ideologica” a me sembra il vero punto di discrimine fra Destra e Sinistra: vivere per sé; vivere per tutti. E l’attenuarsi -a voler essere clementi- di questa linea di demarcazione in nome della ‘performance’ in ogni aspetto della vita odierna -dallo sport ai talent show, all’uso dei social media, alla scuola soprattutto-, è alla base della crisi della Sinistra e, a mio modo di vedere, di tutta la nostra società. Dalla lotta di classe di cui parlavano Marx e Engels si è tornati alla lotta di ogni uomo contro ogni altro, di Hobbes. “Nella vita della scuola il significato del merito coincide con il potenziamento dei propri talenti. Non esiste, infatti, una norma standard di cosa debba essere il merito. Questo sarebbe un vero problema: la natura stessa del merito. Da questo punto di vista il merito è sempre per principio antigerarchico e singolare. Si potrebbe dire che coincida con la capacità generativa tout court. Non è forse questa la finalità prima della scuola? Favorire in ciascuno lo sviluppo di questa capacità generativa al di là delle svariate forme che essa può assumere?”. Senza coinvolgere la Sinistra più ideologica, mi lasci dire che la finalità prima della scuola è fornire gli strumenti della conoscenza, di sé e del mondo. Il quale non comincia oggi, né con la “Buona scuola di renziana memoria”; né con l’arrivo pesante dell’econometria. La nostra società ha prodotto fior di lavoratori, studiosi, professionisti, scienziati, imprenditori, anche prima dell’avvento dei pedagogisti americani dell’epoca neoliberista.
Più marcato dissenso, se mi consente, provo nella sua analisi della scuola “nella vita concreta”. Il corpo insegnante: “Chi merita di insegnare? Possiamo ridurre questo merito all'acquisizione di un titolo? Possiamo continuare da sinistra a non voler vedere, come invece sono costretti a vedere le migliaia di dirigenti scolastici impegnati quotidianamente nel loro lavoro, che esistono insegnanti che non hanno alcun merito per insegnare?”. Il problema c’è, ed è grave. Ma non partirei dagli insegnanti. Le riforme della scuola -e dell’Università- susseguitesi dalla fine dello scorso secolo -connotabili con l’introduzione strisciante della privatizzazione di quella istituzione, che non per niente la ministra Moratti volle sancire con l’eliminazione dell’aggettivo “Pubblica” dal nome del suo ministero- hanno pensato di risolvere i problemi della scuola regalandole una struttura di tipo aziendale, introducendo appunto la competizione a ogni suo livello. Questo è stato ed è davvero “un enorme problema”, nei confronti del quale gli insegnanti, coi mezzi che avevano, hanno opposto una resistenza che sola ha salvato la scuola dall’annientamento -dall’americanizzazione, se preferisce- e che la Sinistra avrebbe fatto assai bene a prendere in considerazione, anzi in considerazione primaria, respingendo i tentativi posti in essere dai vari ministri -tutti- imbevuti di ideologia neo liberista. Trascuro la parte relativa alle “migliaia di poveri dirigenti scolastici impegnati quotidianamente nel loro lavoro”, che vedono “insegnanti che non hanno alcun merito per insegnare”; sarebbe troppo facile osservare che ci sono altre migliaia di poveri insegnanti impegnati quotidianamente nel loro lavoro, costretti a vedere che esistono dirigenti -e dirigenti amministrativi- che non hanno alcun merito per dirigere alcunché -, se non l’acquisizione di un titolo, appunto. Ci sono, come sempre ci sono stati, insegnanti e dirigenti di buono e ottimo livello, e altri che non lo sono affatto. Sui danni sarei più per considerare quelli di omissione, di intralcio, che quelli attivi: chiunque sia uscito dall’età scolare e pure talvolta si trova ad occupare posizioni di rilievo nella società ha ricchi florilegi aneddotici sulla propria vita scolastica anche a riguardo della parte docente e dirigente, senza sentire il bisogno di prendere immediate vendette a parole dette e scritte -l’episodio di Arezzo di cui parlano oggi i giornali-, o a fatti, come sempre più spesso accade.
Certo talvolta non si può fare a meno di notare “quella mortificazione ordinaria che trapela nell'eccessiva durezza, nel disincanto rassegnato, nel cinismo del giudizio, persino, talvolta, nel disprezzo aperto verso i propri allievi, insomma nell'assenza di consapevolezza dell'importanza cruciale della propria funzione educativa e didattica”. Ma, mi creda, non è il merito lo strumento giusto per superare tutto questo: premi e punizioni di per sé non ottengono risultati apprezzabili nella comunità scolastica e nella vita. Da decenni si è pensato di introdurre meccanismi “oggettivi” di valutazione, facendo ricorso agli strumenti di calcolo matematico. I risultati, a distanza di decenni, sono irrilevanti. Lei rivendica come “il valore insostituibile del merito, che nella pratica dell'insegnamento non consiste solo nel possedere il sapere necessario all'esercizio di una didattica, ma, prima di ogni altra cosa, il desiderio deciso di dedicarsi all'insegnare come ad una tra le pratiche più alte nel processo di umanizzazione della vita”. Non è il merito, se mi consente; è piuttosto la cultura che si forma quotidianamente dedicandosi alla propria formazione personale e professionale, se fosse possibile risparmiare un po’ di tempo dalle incombenze di una burocrazia pervasiva -forse
utile nella vita di una azienda, ma non certo in quella di una scuola-. Quanto al merito, a ben pensarci chi lo ha è già ricompensato, e saprà farlo valere senza bisogno di vederlo valorizzato. Il problema resta quello di far diventare “capaci e meritevoli” tutti gli altri.
Luigi Totaro
(foto di repertorio)