La guerra d’Ucraina, come se non bastassero i danni diretti, porta con sé anche danni “collaterali”, dei quali il più grave è forse la crisi dell’informazione, della formazione di una corretta opinione pubblica, del fondamentale servizio che i “media” sono chiamati e tenuti a fare.
Fino dai primi tragici giorni di febbraio, quando il governo russo ha deciso di invadere il Paese confinante -o di estenderne l’occupazione-, la stampa nostrana, più o meno compatta, si è preoccupata prima di tutto di far sapere al suo pubblico qual era il suo orientamento, il suo posizionamento, da che parte stava insomma. E questo, per quanto di modesto interesse, poteva anche funzionare: era un modo di fidelizzare gli interlocutori garantendo che avrebbero avuto notizie corrispondenti ai loro desideri. Ma non si è trattato di dichiarazioni “una tantum”, come sarebbe stato sufficiente a una operazione trasparenza. Da allora quotidianamente, sistematicamente, puntualmente l’azione informativa è divenuta “formativa”, esortativa, persuasiva, senza alcuna concessione all’esigenza di obiettività o semplicemente di plausibilità, anche a costo di tradire una qualche incertezza su quanto si andava pubblicando o mostrando. L’insistenza sui danni provocati dai bombardamenti -le buche o le distruzioni fatte dalle bombe, come se non venissero tirate per quello-; i numeri -per la verità fortunatamente contenuti- dei morti, a seconda dei casi più o meno acclamati se si intendeva mostrare la crudeltà del “nemico” o la fiera resistenza dei “nostri”; il riferimento a “prove” fornite dai Servizi segreti britannici, o della NATO, o polacche, o USA, o ucraine, o baltiche -in barba al sacrosanto principio del diritto romano che sanciva “Nemo testis in causa sua”-; tutto sembra costruito per affermare l’inesorabilità della guerra, con la sua fisiologica drammaticità. E la sua unilaterale crudeltà: di recente abbiamo appreso che i Russi requisiscono gli ospedali ucraini dimettendone forzatamente gli ospiti locali per ricoverare i propri feriti; evidentemente sono più numerosi di quelli degli aggrediti e “resistenti” Ucraini, dei quali tuttavia si continuano a magnificare ardite imprese (che sconfinano anche nel territorio del gigante nemico).
Insomma, anche a prestare tutta la debita attenzione, sfido chiunque a dichiarare che ha capito a che punto è questa guerra, della quale si parla continuamente ma non si dice niente.
Soprattutto non si dice che la guerra è guerra, e si fa facendola: bombardando, distruggendo, uccidendo, disseminando povertà e bruciando vitali risorse; si calca invece su coraggio ed eroismi, su crudele ferocia e confuse debolezze, su certezze di vittoria e di sconfitta.
E non si parla mai di pace. Ormai ne parla solo il papa e qualche cattolico in odore di comunismo -anche se il comunismo, perfino quello più terribile dello stalinismo duro, sembra non entrarci molto, considerando che Putin ha fatto quanto era possibile per cancellarlo dalla Russia-: si veda il recente articolo di Francesco Palmas su “Avvenire”. Invocare la pace appare un tradimento. E’ perfino peggio che invocare i buoni affari perduti con l’economia russa, al centro delle preoccupazioni di Salvini e Berlusconi. E’ perfino peggio che riflettere sul fatto che la guerra la perdono sempre tutti, che i costi li pagano sempre tutti, prima durante e dopo.
Ricordare poi che ogni giorno di guerra che passa fa arricchire i venditori di morte (armi e munizioni), i venditori di petrolio e di gas, i mercanti di tutto sui confini e nelle borse di tutto il mondo, ricordare questo elementare dato di fatto diviene un tradimento del Nostri Valori Occidentali; e tentare di riflettere su cosa hanno prodotto i nostri valori occidentali nel mondo non occidentale significa ingratitudine e disfattismo prezzolato (pagato naturalmente dalle solite centrali del potere “comunista”, inafferrabili e inesistenti). Così tutto resta nebuloso, affidato a proclami senza fondamenti, a una contabilità confusa e disperata, a una esortazione imbelle, a una cobelligeranza “a distanza”.
Scrivevo vent’anni fa (ma riferendomi a un intervento di dieci anni prima, perché in questo ambito non cambia mai nulla): “In questi giorni, proprio come dieci anni or sono, capita spesso di ascoltare -da giornalisti promossi sul campo in maître à penser, e da massimi esponenti della cultura e della politica- l'antica distinzione fra "pacifismo a senso unico" e pacifismo "obiettivo", fra "sterile utopismo" e "concretezza di scelte politiche coerenti"... Ci permettiamo umilmente di dissentire: crediamo che il pacifismo non possa che essere a senso unico, e che la violenza non possa essere in nessun caso considerata giusta.
Sappiamo bene che a questo punto del discorso s'invoca la Resistenza: ma non possiamo fare a meno di pensare che l'alto prezzo pagato dalla nostra Resistenza -da ogni Resistenza- in vite umane, in distruzione, in disgregazione è stato il corrispettivo di una violenza più antica: tollerata e spesso incoraggiata e favorita per meschino calcolo di vantaggi di persone o di ceti o di Stati, che hanno aperto la strada al fascismo, al nazismo, allo stalinismo, al franchismo, ai colonnelli greci, a Pinochet e agli infiniti caudillo centrosudamericani, africani, asiatici. Allo stesso modo con il criminale attentato di New York [alle Torri gemelle] oggi stiamo pagando -tutti- il prezzo di violenze lontane e vicine, tollerate e incoraggiate, in mezzo alle quali oggi come sempre qualcuno è pronto a fondare, o tenta di fondare, il proprio potere in dispregio del diritto dei popoli e dei singoli. Ed ecco ancora altri giustizieri, pronti a fare la loro guerra -giusta, perché è la loro- in nome del superiore interesse degli Stati Uniti d'America, o dell'Occidente, o della Civiltà. Altri morti, altra povertà, altra violenza, altra paura: il terrorismo, indirettamente e per mano dei propri nemici, vince ancora. <…>
Allora non resta che l'utopia. Sì, crediamo con forza all'utopia: all'utopia di tanti che -contro la prudenza e la concretezza- si sono posti come città sul monte e con la spada terribile della nonviolenza hanno cominciato a costruire la pace: nella giustizia per tutti, di ogni giorno e per sempre; nell'uguaglianza di ciascun uomo con ogni altro nell'intera famiglia umana; nella rinuncia a considerare come propria alcuna cosa su questo pianeta, a partire da se stesso fino all'ultimo sasso o all'ultimo filo d'erba. Parlo di Gandhi, Schweitzer, Simone Weil, Luther King, di madre Teresa, del Dalai Lama; parlo di Socrate, di Gesù. Ma anche dei milioni di uomini e di donne senza volto che quotidianamente lavorano a costruire l'utopia della giustizia senza forza, della pace senza morti. La pace non si costruisce con la guerra ma quando finisce la guerra; che non ha senso dire giusta, come non ha senso dire giusta un'operazione chirurgica: può essere solo l'ultima scelta per non morire, o è la follia dell'occhio per occhio dente per dente. La pace si costruisce con la pace. A senso unico: non è parola a doppio senso!”.
Luigi Totaro