Mettiamoci comodi un'oretta e cerchiamo di decodificare la situazione politica e amministrativa dell'Elba, alla luce di questa tornata elettorale. Prima però sfoltiamo le fila.
Anche questa sarà un'analisi di tipo gramsciano, cioè della superstruttura, non del particolare. Dunque, chi è interessato a questa campagna elettorale, ai suoi attori e le dinamiche dei singoli comuni, non troverà qui niente di interessante. La porta è quella, saluti.
Chi spera in una guida sul voto o su indicazioni politiche, la porta è quella, auguri.
Chi fa parte della classe politica elbana, la porta è quella, adiòs.
Adesso che siamo rimasti una dozzina al massimo, i disillusi dello politica locale e coloro che vogliono riflettere sulla società che ci circonda, possiamo cominciare a ragionare. Cercherò di fare una disamina sulla fase che
viviamo e su quello che ci aspetta nel futuro in tema di amministrazioni. Per valutare i rischi e cercare di metterci una pezza. Per capire di chi sono le responsabilità e assumercene qualcuna per non trovarci nel precipizio. Per resistere a quella che veramente potrebbe configurarsi come una nuova forma di lotta di liberazione e per la democrazia.
Una guida, appunto, per tutti quelli che, come me, sono disillusi dalla politica elbana. E, come tutte le guide"galattiche", ha come sottotitolo “Niente panico”.
Specifico una cosa. Non si tratta di una nuova serie: se la suddivido in tre capitoli è per non appesantire la lettura con un solo lungo scritto di svariate pagine, ma permettere a tutti di centellinare e riflettere con calma su ogni aspetto della questione. Perdonate se per tre giorni consecutivi dovrete sorbirvi questa riflessione, che a tratti potrà anche apparire provocatoria. Ovviamente rimane sempre inteso: se non abuso dello spazio di Elbareport.
PRIMA QUESTIONE: LA STRUTTURA DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI
Nel 1997 entrò in vigore la riforma Bassanini, che prevedeva l'elezione diretta del sindaco. Ricordo le discussioni che avemmo, soprattutto a sinistra, su questa legge.
Chi la vedeva con favore, come il sottoscritto, apprezzava che assicurasse, soprattutto ai piccoli comuni come i nostri, una stabilità amministrativa per tutta la durata del mandato: il ruolo del sindaco diventava centrale, togliendo il potere di veti e ricatti dei consigli comunali.
Tuttavia capivo le ragioni dei contrari, che consideravano la nuova figura del sindaco quale una sorta di podestà democratico, e la perdita della centralità del luogo di discussione per eccellenza e massimo organo democratico del comune, cioè il consiglio comunale. Inoltre i contrari denunciavano giustamente il deficit democratico delle rappresentanze: la vittoria di una lista, anche per una manciata di voti sull'altra, le assicurava una maggioranza di quasi due terzi di consiglieri. Non parliamo poi nel caso competessero tre o più liste: la vincente, anche con un solo terzo dei votanti, guadagnava una maggioranza assoluta inattaccabile. Era la condanna all'irrilevanza di qualsiasi opposizione. Una cosa profondamente antidemocratica.
La riforma però poneva due paletti importanti: il limite dei due mandati e l'abbassamento a quattro anni del mandato. Questo aggiustamento, “all'americana”, era importante: un sindaco poteva governare al massimo otto anni, un tempo non lunghissimo e sufficiente a portare avanti un'efficace politica di amministrazione del proprio comune. E poteva favorire l'alternanza tra persone e gruppi, senza creare cacicchi e cariatidi della poltrona.
Ben presto però il mandato è stato riportato a cinque anni. Ma quel che è peggio sono le continue revisioni dei limiti di mandato: prima (legge Delrio 2014) spostando il limite a tre mandati per i comuni sotto i 3mila abitanti, poi (2022) sotto i 5mila. Adesso c'è in ballo un “salto di qualità”, con il decreto legge (dl 7/2024) che toglie il limite di mandati ai comuni sotto i 5mila abitanti ed estendendolo a tre a quelli da 5mila a 15mila.
Il rischio è quindi che l'Elba si ritrovi con un solo comune, Portoferraio, dove un sindaco può rimanere in carica ben quindici anni, in pratica un nuovo tipo di podestà, e ben sei comuni dove un sindaco si può trasformare in un ras a vita. Cioè in forme di democratura a basso livello. Con questo stato dell'arte adesso non potrei che essere d'accordo con quegli amici che vent'anni fa mettevano in guardia da un pericolo per la democrazia.
E peraltro è un pericolo che la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 60/2023, rileva con cristallina chiarezza: “il limite in parola [dei mandati] ha lo scopo di tutelare il diritto di voto dei cittadini […] impedendo la permanenza per periodi troppo lunghi […] che possono dar luogo ad anomale espressioni di clientelismo; serve a favorire il ricambio ai vertici dell’amministrazione locale ed evitare la soggettivizzazione dell’uso del potere dell’amministratore locale”. E ancora un altro passaggio significativo: “La previsione del numero massimo dei mandati consecutivi […] riflette infatti una scelta normativa idonea a inverare e garantire ulteriori fondamentali diritti e principi costituzionali: l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali“.
SECONDA QUESTIONE: L'ASTENSIONISMO
Un'altra tegola pesantissima per la democrazia è l'affluenza alle urne. Anche all'Elba, nelle elezioni comunali, si è assistito negli ultimi anni a un crollo dei votanti. Limitandoci ai comuni più virtuosi, siamo passati da una percentuale dell'85/90% degli anni '90, all'attuale 65/70%. E la tendenza si avvicina pericolosamente al 50%, mentre rischia di scendere al di sotto già adesso in quelli in cui si registra meno partecipazione al voto. Il dato è preoccupante in quanto stiamo parlando della forma di democrazia più diretta di tutte, andando a decidere le sorti di una società, quella paesana, che più di ogni altra si occupa della nostra vita quotidiana, famigliare, lavorativa, ricreativa.
Le persone che (non) andiamo a votare nelle nostre realtà non sono indistinte come i politici nazionali: le conosciamo, spesso sono parenti, ci parliamo e le vediamo tutti i giorni. Proprio per questa interazione diretta, dovremmo chiederci perché anteponiamo le ragioni dell'astensione, anziché la più costruttiva critica aperta e motivata in pubblico confronto, faccia a faccia, con gli stessi che ci chiedono il voto. Per quieto vivere? Indifferenza o disgusto della politica? Qualunquismo? Protesta? Sfiducia? Sono molte le ragioni, tanto che sarebbe più corretto parlare di diversi tipi di astensionismi, e non uno solo. Ragioni spesso sensate, ma che non ci assolvono dal sabotare la democrazia. Non troviamo alibi: non votare significa aggiungere un candelotto di dinamite al ponte che regge la democrazia, anche se le ragioni sono le più nobili e comprensibili.
L'astensionismo è poi, per i nostri piccoli comuni, una pericolosa ritorsione. Spesso il ruolo di sindaci e amministratori di alcuni comuni isolani è quello di capibastone e personaggi incistati in conflitti di interesse. Essendo a capo di consorterie e familismi amorali, in un futuro non troppo lontano si potrà arrivare alla guida di un'amministrazione anche mobilitando poche decine di voti: quello che una cinquantina di voti, con un'affluenza alta, rappresenta poco, in un comune di 2/3000 elettori; in un futuro di astensionismo altissimo diventerebbe una percentuale a due cifre. Al maneggione politicante basterebbe veramente uno sforzo bassissimo per conquistare il comune.
E i problemi non finiscono qui.
Andrea Galassi