“Quod Principi placuit legis habet vigorem”: “Ciò che il principe ha approvato ha forza di legge” (II sec. d. C.: Ulpiano, Digesta, 1, 4, 1pr). Questa “sentenza” dell’antico diritto romano, riproposta dall’imperatore Giustiniano nel VI sec., è stata posta nel corso dei secoli a fondamento della teoria del potere assoluto (Princeps legibus solutus est: il Sovrano non è vincolato dalle leggi) dei sovrani, e di fatto -pur con il richiamo formale all’esercizio in nome del Popolo che “gli conferisce ogni suo potere di comando e ogni potestà”- stabilisce il fondamento giuridico della Sovranità. Solo alla fine del XVIII secolo con la ribellione delle colonie americane al dominio del re d’Inghilterra (Rivoluzione Americana, 1776) e poi con la Rivoluzione Francese (1789) tale principio venne messo in discussione e poi gradualmente accantonato, non senza azioni cruente.
Accantonato. Ma evidentemente non abbandonato, se -a parte il caso eccezionale della Chiesa cattolica, che lo ha riproposto come dogma di fede nel 1870- gli Stati totalitari del ‘900 -per tutti Italia, Germania, Unione Sovietica- lo hanno fatto proprio e applicato, sempre “in nome del Popolo”.
Donald Trump, prima ancora di essere rieletto Presidente degli Stati Uniti d’America, ha annunciato la sua intenzione -poi puntualmente attuata- di emanare oltre cento “Decreti esecutivi” senza richiedere l’approvazione del Congresso, che a norma della Costituzione americana (art. 1, 1-10) detiene il potere legislativo. Analogo comportamento ha tenuto nella nomina di alcuni collaboratori della squadra di governo, che non sono passati dal previsto esame del Congresso prima di entrare in carica.
In nome del Popolo. “Il Popolo mi ha eletto, il Popolo vuole tutto quello che io decido, che pertanto diventa legge”: è l’ultima (in ordine di tempo) parafrasi della sentenza di Ulpiano citata all’inizio. Anzi, nel caso di Trump, il principio viene corroborato dal miracoloso salvataggio -ovviamente operato da Dio- in occasione dell’attentato del 13 luglio 2024 a Meridian, alla periferia ovest di Butler, in Pennsylvania. Dunque Dio e Popolo hanno “eletto” il Presidente per salvare l’America, “per farla di nuovo grande”.
Fatte le giuste proporzioni, argomentazioni dello stesso genere si ritrovano nel ‘discorso’ politico istituzionale in molti altri Stati del nostro mondo, nei quali si percepisce un certo fastidio per la “complicazione” costituita dagli equilibri delle democrazie rappresentative (che esaltano il ruolo dei Parlamenti) e della Divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), considerati impacci all’operatività del Potere esecutivo, che tende a porsi come potere prevalente e a proporsi come potere unificante assumendo il ruolo tradizionalmente attribuito agli altri due: è il caso italiano della proposta istituzionale del Premierato, anticipata dall’uso accentuato della Decretazione d’urgenza; e della proposta di modifica delle forme d’indipendenza giudiziaria, sostanzialmente ordinata alla subordinazione della Magistratura inquirente al Potere esecutivo.
Appare abbastanza chiaro che questa tendenza, compiuta negli Stati Uniti con la rielezione alla Presidenza di Donald Trump, costituisce dal punto di vista storico un ritorno agli ordinamenti dell’Ancien Régime, a una forma non apertamente dichiarata di Assolutismo monarchico. D’altro canto il venticinquennale controllo del Potere esecutivo da parte del Presidente della Comunità degli Stati Indipendenti (Russia e associati) Vladimir Putin si pone in diretta continuità -sotto il profilo istituzionale- con la forma “repubblicana” dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, relegando le istituzioni rappresentative a un ruolo a dir poco marginale; come del resto avviene nella Repubblica Popolare Cinese. Ma nel mondo abbastanza diffusi sono i casi di “repubbliche” fondamentalmente monarchiche, e non solo quelle che derivano da antichi imperi ormai ridimensionati (Turchia, Iran), ma anche da Stati sorti con il disfacimento di quegli Imperi, come gli Stati balcanici e quelli medio orientali.
Se ne può dedurre che l’unica area geopolitica che resiste -con non poche difficoltà- nel mantenimento delle forme istituzionali derivate dalla fine dell’Ancien Régime, della divisione dei poteri, dell’effettivo controllo del Potere esecutivo da parte delle assemblee rappresentative (i Parlamenti) emanate da libere elezioni dei cittadini è proprio quell’Europa immaginata dagli autori del Manifesto di Ventotene, e solo in parte realizzata a causa delle resistenze conservatrici dei singoli Stati che la compongono, o forse sarebbe meglio dire che ne sono ospiti.
Eppure proprio gli eventi degli ultimi anni indurrebbero a credere che quell’idea si muoveva su una linea di crescita. L’insofferenza delle altre potenze per l’obiettiva portata politica ed economica che l’Unione Europea potrebbe rappresentare sta alla base delle ultime venture internazionali che hanno condotto alla guerra d’Ucraina e all’espansionismo israeliano. Gli Stati Uniti hanno temuto, e temono, che l’Europa possa destabilizzare il potere esclusivo della loro moneta, rendendo manifesta una debolezza che, secondo gli esperti di geopolitica, produrrebbe una crisi assai devastante di quell’economia. Ma non è accettabile che il prezzo da pagare sia l’estinzione del progetto Europa Unita.
Ecco, dunque, che la prospettiva di far crescere e sviluppare pienamente il ruolo dell’UE si ripropone con rinnovata forza, con rinnovata urgenza. Stando ben attenti a non cadere nella trappola conservatrice di farne una Potenza vocazionalmente antagonista, una Potenza militare. Ciò che l’Europa ha da spendere nel contesto internazionale è il sistema di valori che hanno visto nascere e svilupparsi l’unica realtà di Democrazia che conosciamo, in cui la forma istituzionale garantisce la preoccupazione di chi governa nei riguardi dei diritti e dei doveri dei cittadini, della giustizia distributiva delle risorse, della dignità personale di ciascuno, della possibilità per tutti di accedere agli strumenti e ai metodi della conoscenza scientifica e della formazione di una consapevolezza etica.
Non è impresa semplice, e non si costruisce in un giorno. Storie, tradizioni, economie, antropologie diverse fanno fatica ad armonizzarsi: bisogna imparare a cooperare, a compiere lo sforzo continuo di trovare il massimo comun divisore, e su quello costruire il passaggio successivo; fino a trovare un minimo comune multiplo, che resta l’obiettivo ulteriore. E’ una scommessa che vale la pena compiere, che guarda al futuro. “Quod Principi placuit” ci riporta indietro di duemila anni.
Luigi Totaro