È stato importantissimo e bello che nel suo discorso di fine d’anno il Presidente della Repubblica abbia citato, per la prima volta in un’occasione così importante e solenne, le isole minori all’interno di un quadro molto più vasto di problemi ambientali e di grandi possibilità di sviluppare una nuova economia green, resiliente e di qualità. “Dobbiamo avere maggior cura dei nostri territori – ha detto Sergio Mattarella –. Da quelli montani a quelli delle piccole isole,
dove nostri concittadini affrontano maggiori disagi. Occorre combattere contro speculazioni e sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. È confortante vedere la formazione di molti movimenti spontanei, l’impegno di tanti che si mobilitano per riparare danni provocati dall’incuria e dal vandalismo, e difendono il proprio ambiente di vita, i parchi, i siti archeologici. L’Italia è vista all’estero come il luogo privilegiato della cultura e dell’arte, e lo è davvero. Questo patrimonio costituisce una nostra ricchezza, anche economica. Abbiamo il dovere di farlo apprezzare in un ambiente adeguato per bellezza. L’impegno delle istituzioni, nazionali e locali, deve essere in questo campo sempre maggiore.”
Chi ha ormai 60 anni come chi scrive ha visto in anni lontani l´ala nera della miseria sfiorare ancora le isole minori italiane, un´ombra che si è poi rapidamente dileguata, abbandonando terre arricchite dal turismo e che di turismo vivono. Il richiamo di Mattarella, alla fine dell’anno della 21esima Conferenza della parti dell’United Nations Framework Convention on Climate Change (COP21 UNFCCC) di Parigi, rischia però di passare sotto silenzio come
quello che ha accolto nell’ormai lontano 2007 la concretissima profezia della Commissione europea sui cambiamenti climatici. Secondo quei dati, entro il 2050/2070 ci potremmo trovare nella situazione mai vista di un mutamento ambientale ed economico che, nel breve arco della vita di un uomo occidentale o poco più, potrebbe riportare i frammenti di continente europeo sparsi nel Mediterraneo alle condizioni economiche preturistiche.
Infatti, come hanno confermato anche i documenti preparatori della COP21 di Parigi, il riscaldamento del clima prossimo venturo avrà nel Mediterraneo uno dei suoi maggiori punti di crisi e rischia di travolgere per prime le isole minori esposte ancor più del continente a mutamenti repentini e con la distruzione di flora e fauna endemiche e di un´economia fragile. Non siamo ai livelli del Pacifico, dove interi stati insulari potrebbero ammainare le loro bandiere multicolori davanti al mare che inghiotte gli atolli, ma già oggi nelle isole minori mediterranee l´avanguardia strisciante dei cambiamenti è visibile a terra e a mare, e mettere in crisi risorse idriche ed equilibri recentemente consolidati.
La Commissione europea e l’UNFCCC ci dicono che le prime attività economiche a risentire del riscaldamento globale sono/saranno turismo e agricoltura, quest´ultima nelle isole minori ormai svolge un ruolo marginale ma essenziale per la biodiversità e la qualità del cibo e del vivere, mentre il primo è l´unica vera monoeconomia, che da solo sostiene tutte le altre, compresa quella del cemento che ne erode voracemente qualità e risorse. Se per l´Italia il turismo
rappresenta il 12% del Pil italiano, per Arcipelago Toscano, Ponziane, Ischia e Capri, Eolie, Egadi, Pantelleria, Pelagie, Tremiti e le piccole isole sarde è ormai praticamente il 100%.
Lo scenario del nostro possibile futuro dell’Antropocene è quello di coste mediterranee velocemente arroventate fino a livelli libici, mentre le nostre gradevoli temperature estive e la nostra mite primavera si sposteranno verso il Mare del Nord e l´Atlantico portandosi dietro animali, piante, coltivazioni, il turismo e i 130 miliardi di euro della sua economia, senza contare l´innalzamento del mare che si mangerebbe spiagge, ombrelloni e porti e quel che rimane delle piane costiere e delle zone umide isolane, lasciandoci in cambio siccità, riduzione della fertilità del suolo, incendi e altri fattori dovuti al cambiamento di clima.
Cambierà l´ambiente e le avvisaglie della tropicalizzazione del mare, che già oggi vede l´arrivo di animali di mari più caldi come il pesce serra, preceduti, tra il divertito disinteresse dei più, da donzelle pavonine, Caulerpa Taxifolia e da una miriade di invertebrati, diventeranno anche desertificazione della terra. E tutto questo sulle isole minori rischia di passare come un caldo e inarrestato soffio che sperimenta per primo da noi quel che altrove procederà con minore velocità, favorito da cemento, scarse risorse idriche, politiche ambientali a volte inesistenti e senza trovare a temperarlo montagne da risalire o rimasugli di ghiacciai. In tutto il mondo le isole sono i luoghi nei quali l’estinzione di massa degli esseri viventi e l’avanzata delle specie aliene procedono più rapidamente, ma nelle nostre isole minori sono a rischio specie vegetali già rarissime come il fiordaliso di Capraia o la viola dell´Elba, o le Osmunde regalis, le più grandi felci italiane, che l´ultima glaciazione, ritirandosi, ha depositato come naufraghe nelle più ombrose e nascoste valli elbane, ma anche tutti gli anfibi rari e preziosi come il discoglosso sardo o la raganella tirrenica che miracolosamente riescono ancora a sopravvivere in pozze e corsi d´acqua temporanei. Intanto in questi miti inverni il mare si anima delle picchiate acrobatiche delle sule bassane in vacanza dal nord Atlantico, e il cielo di gruppi di uccelli migratori che si fermano in queste zattere calde senza più pensare all´Africa lontana e faticosa.
I segni e i vaticini scientifici diventati pericolosa realtà ci sono, ma da questi scogli diventati fortunati per un capriccio dell´economia, non riusciamo più a leggerli come prima nel cielo e nelle onde. Forse con gli occhi velati dalla foschia che sale dal mare più caldo, forse distratti dal canto d´amore dei merli che stupisce il nostro inverno, non riusciamo a vedere e sentire il pericolo che avanza veloce, il ticchettio velocissimo del poco tempo che manca per correre ai ripari, che come un tarlo si mangerà il tavolo imbandito del turismo e del nostro benessere.
Distogliamo lo sguardo e il cervello (attività alla quale sembrano portati purtroppo anche molti nostri amministratori locali), proponiamo nuove schiere di seconde, terze e quarte case che spopolate dei nostri nipoti saranno finestre vuote sul deserto, nuovi porti che tra pochi anni affogheranno nel mare che sale, nuove privatizzazioni di arenili in spiagge destinate a essere mangiate dalle onde. Quasi non riuscissimo a fermare l´abbrivio di una corsa ormai
lanciata verso una ripida discesa, come nuovi e fatalisti mammut del cemento.
Eppure noi ambientalisti, quelli che annusano vento e segni e leggono gli aridi dati che gli scienziati dell’Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC) preoccupati suggeriscono all´orecchio dei burocrati e dei governanti europei, non chiediamo di fermarsi, chiediamo di muoversi, di cambiare per quanto ce lo consente il poco tempo che rimane, di consegnare ai nostri figli una speranza di poter vivere ancora su queste isole così belle, su queste terre che, se ci lasciano andare, ci riattirano come sirene salmastre.
Nel suo progetto Itaca Legambiente pensava alle isole minori come laboratorio avanzato per la sostenibilità: territori finiti e con risorse limitate, a come le isole potevano diventare, grazie a un ambiente e a una biodiversità ancora in buono stato di conservazione e di un´antropizzazione in molti casi ancora sostenibile, la frontiera più sensibile delle nuove politiche territoriali e ambientali dell´area mediterranea, spostando l´attenzione dallo sviluppo quantitativo,
che ormai pare aver raggiunto il massimo della capacità di carico in tutte le isole, a quello qualitativo, con interventi di “infrastrutturazione ambientale” e l'introduzione diffusa dei criteri e dei principi dello sviluppo ecosostenibile.
Passando così dalla rendita all´innovazione, opponendo non il petto ma la mente e la volontà di salvezza al caldo e alla sabbia che risalgono rapidamente il Mediterraneo.
Suggestioni e proposte che quasi nessuno ha respinto, che molti hanno ritenuto più che interessanti, ma che hanno faticato a diventare pratica corrente, che hanno ispirato progetti ambientali ed energetici che troppo spesso non hanno trovato le gambe amministrative e politiche per poter correre.
Così i territori forse più globalizzati dal turismo del nostro paese, le isole minori, troppo spesso sono rimaste indietro rispetto al boom delle energie rinnovabili sul continente o incapaci di mettere in piedi una raccolta differenziata dei rifiuti moderna, favorita dal fatto che alcune categorie merceologiche più problematiche – per fare un esempio le bottiglie di plastica – potrebbero tranquillamente rimanere sulle coste se solo ci fosse la determinazione amministrativa a farlo.
Invece il progetto pilota per liberare le isole minori dai sacchetti di plastica, lanciato ormai molti anni fa da Legambiente, venne ricoperto di complimenti, ma poi ritenuto impraticabile da amministratori locali che poi hanno visto una legge nazionale, e poi una normativa europea, proibire quel che loro non hanno voluto fare mentre lo facevano già il Bangladesh o, senza andare così lontano, la Corsica.
Così, i dati della raccolta differenziata in molti comuni delle isole minori sono sconfortanti, troppo spesso molto inferiori a quelli dei comuni costieri, con costi che continuano a lievitare per le comunità locali e che mostrano l’insostenibilità della gestione dei servizi in economie “a elastico” con variazioni enormi tra l’inverno e l’estate.
Lo stesso vale per l’energia che, al di là di qualche coraggiosa iniziativa sparsa nelle nostre isole, resta fossile e in mano a chi non sembra capace di innovazione.
Anche qui Legambiente e altri hanno presentato progetti che renderebbero molte isole minori italiane autosufficienti energeticamente utilizzando il sole, il vento e l’energia delle onde e delle correnti, che abbiamo in abbondanza, e incrementando l’autoproduzione e il poco praticato e ancor meno sostenuto risparmio energetico. Cosa che ci permetterebbe di abbandonare subito i medioevali incentivi all’energia prodotta con fonti fossili importate nelle isole minori.
Non mancano lodevoli protocolli d’intesa che coinvolgono in vario modo regioni, province e comuni, o qualche virtuoso regolamento edilizio che prevede l’utilizzo delle energie rinnovabili per le nuove costruzioni e per le manutenzioni e gli ampliamenti. Manca invece sia la capacità di attuarli localmente sia il puntiglioso controllo affinché vengano davvero realizzati sul territorio comunale.
Così, mentre da tutto il mondo, dai Caraibi a El Hierro alle Canarie e agli atolli del Pacifico che stanno annegando nel mare che sale del cambiamento climatico, arrivano le notizie di isole e di interi paesi che stanno percorrendo velocemente la strada verso l’indipendenza energetica e la liberazione della schiavitù dal gasolio attraverso un massiccio utilizzo di un mix di energie rinnovabili, mentre il nostro paese finanzia all’estero alcuni di questi progetti, nelle nostre isole e nei nostri arcipelaghi si continua a fornire energia fossile a territori che per primi dovrebbero esserne affrancati.
Le nostre isole minori, poste sulla frontiera ambientale ed economica del cambiamento climatico, avrebbero dovuto essere il laboratorio del futuro e invece si ritrovano a rincorrerlo – spesso pigramente e di malavoglia – perché abituate a un comodo presente fatto di una rendita turistica, che però oggi risulta sempre più a rischio tra concorrenza internazionale, guerre e migranti. Fenomeni in un mondo che cambia sia con la green economy sia con la bad economy per eccellenza, quella guerra infinita che ha le sue sporche radici nel petrolio, in un passato fossile che tiene in ostaggio la pace e il progresso, il presente e il futuro, di chi divide con noi il mare antico nel quale galleggiano le nostre isole, da sempre zattere salvifiche per uomini e animali, ponti di incontro, luoghi di rifugio e pena per le genti mediterranee.
E allora bisogna tornare all’esortazione di fine d’anno del Presidente della Repubblica Sergio Matterella, alla necessità di un “impegno delle istituzioni, nazionali e locali” che troppo spesso nelle isole minori italiane è insufficiente, quando non latitante. Ma allora bisogna anche dirsi che queste nostre isole così globalizzate e che a volta cercano di salvare la loro identità e le loro tradizioni trasformandole in folklore turistico, devono fare un balzo in avanti rispetto
alla loro attuale gestione amministrativa, non essendo probabilmente più possibile di qualità della politica in isole, in piccole comunità, che vivono e mostrano pienamente la disgregazione e la liquidità politica del nostro paese, in questo forse all’avanguardia.
Bisogna ripensare il governo delle isole minori italiane, spesso trasformate in “campi di decentramento” amministrativi, come nel caso dell’Elba e di Ischia, con una miriade di comuni litigiosi e inefficaci, spesso incapaci di difendere il loro territorio da speculazioni e abusi, come dimostrano i dati sui condoni edilizi nelle isole minori, vere e proprie calamite del cemento illegale.
Bisogna (ri)cominciare a ragionare a livello di isola e di arcipelago, di comunità insulare, se si vuole davvero affrontare i problemi che, in diversa misura ma praticamente sempre, colpiscono le isole minori italiane: qualità dei servizi, trasporti, prestazioni sanitarie e ospedaliere, scuola, perdita e impoverimento culturale della classe dirigente, causata paradossalmente dall’aumento degli isolani laureati, che raramente ritornano a lavorare nelle isole, dove la monocultura turistica non richiede le loro competenze.
Un ripensamento operoso che dovrebbe coinvolgere per prima l’Associazione nazionale comuni isole minori (Ancim), che raggruppa i 36 comuni delle isole minori italiane, ma del quale non si vede altro che qualche progetto di legge – non sempre azzeccato – che si impolvera nei passaggi parlamentari, arenandosi in un tempo dilatato di decisioni non prese che invecchiano proposte e progetti.
Problematiche ben presenti, conosciute, condivise, ma che continuano a galleggiare in una indefinita attesa di un decisore che non arriva, un Godot insulare che aspettiamo da troppo tempo, scrutando il mare della frammentazione amministrativa, dell’improvvisazione, dei bei progetti abortiti, delle promesse non mantenute.
Ma noi di Legambiente restiamo convinti che in queste piccole e antiche terre di miseria e fatica, diventate agiate grazie alle loro bellezze uniche, al loro ambiente e alla loro storia, ci siano le energie naturali e umane per fare delle isole minori italiane un’avanguardia dell’Italia del futuro. Ce lo dicono la miriade di iniziative individuali che Legambiente incrocia ogni giorno, gli ecoalberghi, i ristoratori che costudiscono i sapori e i profumi di queste terre e li fanno conoscere al mondo, gli agricoltori e i pescatori che hanno deciso di restare a difendere faticosamente terra e mare, i giovani che non se ne vanno e quelli che non tagliano mai il cordone ombelicale che li lega a queste madri marine, a questi territori salmastri dove la vita è ancora incontro quotidiano con la natura e la bellezza, dove la quiete è ancora possibile anche durante il caos estivo, dove gli uomini e le donne potrebbero e dovrebbero poter costruire, per primi e per bene, quel futuro resiliente e rispettoso della terra e del mare, che dovrebbe essere quello che ci spetta e che ci aspetta.
Umberto Mazzantini