Le risorse boschive dell’isola di Montecristo devono aver conosciuto un pesante sfruttamento sin dall’antichità classica, in parte derivato da un’attività a dir poco inconsueta per una piccola isola sperduta: la riduzione del ferro. Ancora oggi, infatti, mescolate alla candida sabbia grossolana di Cala Maestra, si possono vedere alcune piccole scorie ferrose, ben levigate dall’azione del mare; esse non sfuggirono agli occhi di Giuseppe Giuli, che nel lontano 1833 vi osservò «cumuli di scorie di ferro, e siccome non si trova nell’isola la miniera di questo metallo, è da credersi che in altri tempi fosse portata dall’Elba per ridurla allo stato metallico.» Che si trattasse di fornaci d’età etrusco-romana o medievale, in ogni caso il combustibile necessario al processo di riduzione del minerale di ematite era rappresentato dal duro legname della macchia mediterranea, in particolar modo dal «ciocco» di scopa (Erica arborea) e, a minor livello qualitativo, dal leccio (Quercus ilex). Di questa cupa e preziosa quercia mediterranea oggi rimane un centinaio di vecchi esemplari presso l’eponimo Collo dei Lecci e il vicino Collo Fondo, quasi a voler simboleggiare una delle più tristi vicende botaniche delle isole toscane; e la loro crescita, tra l’altro, è duramente contrastata dalle voraci capre selvatiche che regolarmente divorano le nuove piantine. I lecci di Montecristo sono ricordati a partire dalla fine del Cinquecento, allorché Apollonio Pavolini, pievano di San Piero in Campo, nella sua «Relazione dell’isola di Montecristo» annotò che «la suddetta isola è sterile, tutta sassosa e cavernosa, la maggior parte dei boschi sono di lecci di grossa misura […].» Durante il Seicento, addirittura, i lecci abbondavano a Montecristo; nell’Archivio di Stato di Firenze è conservata un’interessante relazione del 1614 in cui si legge che nell’isola «ci si trova una grandissima quantità di legne da farne 12 e forse 15 cataste. Sono alberi grandissimi e belli con alcuni pini, ma è tanto cattivo il paese per poter condurre delle legne alla marina, che ci bisogna una buona spesa a far fare le strade, acciò l’asini e cavalli ci potessero camminare […] con 5 o 6 mila ducati si farebbe tante strade che si condurrebbono alla marina. Ci bisognerebbe una buona torre dove si [h]anno a fare le cataste delle legna […] e che sia abitata la Pianosa che altrimenti sarebbe difficile il potervi praticare per amor de’ Turchi; nel resto poi ci andrebbe poca spesa a far fare le legne, perché non sono lontane [es]sendo l’isola piccola.» Dopo più di due secoli, nel 1852, Vincenzo Mellini visitò l’isola e nel suo réportage intitolato «Isola di Monte Cristo» scrisse che «l’unica riserva agricola che rimane in quest’isola è il taglio dei pali e delle legne. Ma anche questa incontra insormontabili difficoltà; perché i bellissimi lecci che fornirebbero ottimi pezzi da costruzione navale, o sono in luoghi inaccessibili, o se sono in luoghi accessibili non si possono trasportare al mare per i continui precipizi che barrano ovunque la strada.»
Silvestre Ferruzzi