Il convegno di Federparchi svoltosi a Roma il 29 gennaio – “Parchi, proposte e alleanze: verso gli Stati generali delle aree protette” – si presta a una duplice lettura: la prima riguarda le alleanze, la seconda le proposte.
Per quanto riguarda le alleanze, il convegno è stato certamente un successo per Federparchi: la presenza attiva e qualificata dei rappresentanti di numerosi enti (dalla Coldiretti alla Cia, dall’Aiab a Slow Food, da Legambiente a Symbola , da Federculture al Gruppo di San Rossore, dall’Unimar ad Arcicaccia, dalla Uisp al Cai, da Greenpeace a Fare ambiente a Telecom Italia) e la partecipazione significativa di alcuni, anche se pochi, rappresentanti istituzionali (il Presidente della Commissione ambiente del Senato, l’Assessore all’ambiente della Regione Lombardia, il Direttore Generale del Ministero dell’ambiente) e di alcuni, anche se pochi, partiti (PD, SEL, Verdi) hanno confermato il fatto che nel settore delle aree protette Federparchi rappresenta sempre di più il riferimento ufficiale per gli altri settori.
Dal convegno inoltre è emersa - ed è un’importante novità - una convinta e larga adesione alla proposta di alleanze lanciata da Federparchi. In gran parte degli interventi è stata sottolineata l’importanza delle alleanze quale strumento strategico per impostare una nuova efficace politica delle aree protette o più esattamente, come qualcuno ha opportunamente rilevato considerando i risultati positivi raggiunti nell’ultimo ventennio, per avviare la seconda fase di tale politica. Questa fase – hanno detto in molti, trascurando però il fatto che proprio grazie ai parchi si è assistito in questi anni a un nuovo protagonismo comunale – deve coinvolgere come protagonisti fondamentali i comuni e le categorie del mondo produttivo, in particolare le categorie dell’agricoltura e della pesca.
L’attenzione riservata a Federparchi dimostra quanto grandi siano le potenzialità della sua azione e quanto grandi siano, di conseguenza, le sue responsabilità..
Ma quali contenuti dare alle alleanze? Quale politica avviare? Quali sono le proposte che occorre porre al centro della “nuova” politica? E soprattutto qual è la natura e quali sono le funzioni dei parchi in questa nuova fase? Sotto questo aspetto – che pure è il presupposto di tutto - Federparchi e il convegno hanno mostrato gravi limiti.
Di fronte all’apertura di credito da parte del mondo esterno Federparchi non può appiattirsi – come in sostanza sta facendo e come si deduce anche dal documento preparatorio del convegno - sulle posizioni che sono state la causa della drammatica frattura avvenuta nell’ultimo anno all’interno del movimento ambientalista sulla questione parchi e cioè in sostanza sulle posizioni contenute nel disegno di legge di modifica (o di “aggiornamento”, come pudicamente si dice) della legge quadro del 1991 approvato in sede deliberante dalla Commissione ambiente del Senato poco più di un mese fa e cioè all’ultimo momento utile della legislatura. E tanto meno non può nascondere o minimizzare la frattura se non altro perché quelle posizioni preoccupano fortemente gli operatori e le loro associazioni. Federparchi invece deve con coraggio affrontare le cause della discordia che riguardano punti fondamentali e strategici e perciò aprire una discussione franca, aperta e trasparente. Né può, come invece ha fatto nel convegno e cioè proprio nel momento in cui ha voluto aprire il percorso verso gli “stati generali”, limitarsi ad attendere le proposte degli altri le quali o sono legate a punti di vista specifici e perciò parziali o, di fatto, sono conformi proprio a quelle posizioni che hanno causato la frattura.
Certo, il disegno di legge contiene numerosi elementi positivi, ma gli elementi negativi sono così gravi da inficiare l’intero testo. Il fatto che la Commissione ambiente del Senato non abbia accantonato le parti contestate, come invece avrebbe potuto tranquillamente e doverosamente fare, induce a pensare che l’accelerazione finale dell’iter parlamentare, da tutti inaspettata, sia dovuta soprattutto alla volontà di far passare proprio quelle parti.
A un esame oggettivo gli elementi oggetto di contestazione si rivelano distorcenti e devastanti. E’ distorcente, in quanto in sé contraddittoria, la prevista composizione del consiglio direttivo perché contiene nello stesso tempo una logica di tipo corporativo (con l’inserimento dei rappresentanti degli interessi agricoli) e una logica da ente locale intermedio (con l’ampia presenza dei rappresentanti dei comuni). E’ devastante la previsione delle royalties e delle concessioni ai privati dei beni demaniali – che sono generalmente i beni più preziosi – perché l’ossessionante esigenza dell’autofinanziamento apre inevitabilmente le porte, al di là delle migliori intenzioni, alle piccole e anche alle grandi devastazioni di territorio.
Nel suo intervento al convegno il Sen. D’Alì, Presidente della Commissione, ha detto che sul disegno di legge si era manifestato il consenso del mondo dei parchi. Ma il Sen. D’Alì sa bene che da molto tempo e con approfondite e inoppugnabili argomentazioni associazioni e osservatori, anche se non rappresentati da Federparchi, si erano invece espressi in maniera decisamente negativa sia per le motivazioni ora succintamente indicate sia per l’assenza di temi fondamentali, alcuni dei quali certamente prioritari (la carta della natura, le politiche di sistema, le competenze dei parchi sul paesaggio, le competenze delle regioni sul mare prospiciente ai parchi regionali, il ruolo delle comunità del parco, le riserve naturali all’interno dei parchi, la scelta del direttore, ecc.). Sarebbe perciò un grave errore per Federparchi considerare il disegno di legge, così precipitosamente approvato e così fortemente contrastato, come testo di partenza per il dibattito sulle modifiche della legge quadro che riprenderà nella prossima legislatura.
Alla base di tutto manca una riflessione approfondita sulla natura e sulle funzioni delle aree protette in questa fase. Non basta più ripetere che la loro funzione fondamentale consiste nella conservazione della biodiversità se non si collegano le aree protette all’intero territorio perché oggi, di fronte alle aggressioni che hanno portata globale, conservare la biodiversità solo in una sua parte (che sia il 10% o il 20%) e per di più a macchia di leopardo rischia di essere opera meritoria, ma vana. Un primo problema di fondo è allora quello di individuare le forme di collegamento tra le singole parti e il tutto.
E’ inoltre fortemente equivoco parlare di valorizzazione – oltretutto contrapponendo questo temine alla conservazione, come si è fatto anche durante il convegno – perché il vero valore da porre al centro della politica delle aree protette non è certo di natura economica, ma è il valore del rapporto tra la natura (la terra) e la persona: un valore che si può declinare in tanti modi (bellezza, spiritualità, radici, autenticità, dono, responsabilità verso le future generazioni), tutti espressione di esperienze profonde vissute in ogni epoca dal genere umano. Oggi i parchi devono essere, e in parte già lo sono, luoghi e modelli in cui è possibile inverare e rendere concreto questo rapporto.
E’ per questi stessi motivi che sono da respingere sia la visione contabile secondo cui i servizi ecosistemici forniti dai parchi avrebbero un valore economico e pertanto questo valore o almeno una sua parte spetta a loro - quando invece l’acqua, l’aria, i boschi, la terra che i parchi tutelano sono beni che non appartengono né a loro né alle sole popolazioni locali perché sono beni comuni, cioè di tutti -, sia la visione aziendalistico-produttiva secondo cui i parchi hanno come obiettivo lo sviluppo sostenibile e pertanto sono green economy specializzata nel made in Italy e soprattutto in prodotti turistici ed enogastronomici e pertanto la loro esistenza si giustifica solo se riescono a operare in tal senso.
Vi è soprattutto in quest’ultima impostazione una distorsione logica pericolosissima che si va sempre più diffondendo e alla quale non si sottrae Federparchi. “Le aree protette – si legge nel documento preparatorio del convegno - sono degli straordinari strumenti di tutela della natura e sono dei moderni organismi per la gestione integrata e sostenibile del territorio a condizione che nei fatti siano capaci di affermare questo ruolo e, soprattutto, che riescano ad accreditarsi positivamente nei confronti dei livelli istituzionali elettivi e delle forze economiche e sociali che operano nei territori interessati. Senza questo riconoscimento le aree protette finiscono inevitabilmente per isolarsi rispetto al contesto territoriale nel quale sono inseriti e così facendo rischiano di indebolirsi fino a fare diventare inutile la loro funzione. Per questo l’impegno prioritario dei parchi nei prossimi anni deve essere quello di ‘dare un valore’ ai beni naturali che essi conservano e che gestiscono garantendone la riproducibilità. E’ necessario dunque contabilizzare il valore della natura in nome di un nuovo ‘progresso’, duraturo e collettivo”.
Da questa impostazione derivano tre conseguenze che devono far riflettere:
1.se l’impegno dei parchi deve essere diretto ad “accreditarsi” nei confronti degli enti elettivi e delle forze economiche perché altrimenti la loro azione rischia di diventare inutile, la conseguenza è che obiettivo prioritario dei parchi è quello di “accreditarsi”, non di conservare la natura;
2.se l’impegno prioritario dei parchi è quello di “contabilizzare il valore della natura” perché in tal modo i parchi possono sperare di avere un ritorno economico e farlo pesare per “accreditarsi”, la conseguenza è che nella politica dei parchi la natura rileva solo in quanto bene economico;
3.se la ragione per cui i parchi non riescono a svolgere un’azione efficace dipende dal fatto che non riescono ad “accreditarsi” e nemmeno ad assolvere all’impegno prioritario di dare valore economico ai beni naturali, la conseguenza è che su di loro ricade la responsabilità e quindi devono considerarsi enti inutili.
Appare evidente la distorsione che è vera e propria inversione logica: non è la collettività che, avendo scelto di tutelare con regime speciale una determinata area in quanto rilevante sul piano naturalistico e conseguentemente di attribuirla alla gestione di uno specifico ente, ha il dovere di realizzare le condizioni perché l’ente gestore possa operare efficacemente, ma è l’ente gestore che per giustificare la sua esistenza deve dimostrare alla collettività la sua utilità e a tal fine deve convincere in particolare gli enti elettivi e le forze economiche che le azioni di conservazione poste in essere hanno valenza e ritorno economici.
In sintesi, secondo questa impostazione la natura non va tutelata in quanto tale, ma solo in quanto bene economico.
Siffatta conclusione, che nessuno sottoscriverebbe in termini così crudi, ma che discende direttamente da premesse come quelle contenute nel documento ora citato, influenza in maniera inevitabilmente distorta le scelte politiche concrete.
Di qui la necessità di una riflessione profonda sulla natura, sul ruolo, sulle funzioni delle aree protette. Di qui la richiesta a Federparchi di arrivare agli “Stati generali delle aree protette” attraverso un percorso effettivamente partecipativo dove tutti possano confrontarsi senza l’ossessione delle modifiche alla legge quadro e dove sia possibile ricomporre i contrasti e ricostituire, pur nella varietà e nella dialettica delle posizioni, l’unitarietà del movimento dei parchi. Di qui infine l’auspicio che Federparchi si ponga non solo come importante interlocutore “ufficiale” sia delle amministrazioni pubbliche sia del mondo esterno ai parchi, non resti fondamentalmente l’associazione dei presidenti i quali, non essendo elettivi, sono scarsamente rappresentativi e rilevano esclusivamente per la loro capacità di gestire, ma diventi anche il riferimento sostanziale dell’intero movimento che è realtà complessa e diversificata, ricca di professionalità e di passione.
Carlo Alberto Graziani
Università di Siena
ex Presidente Parco dei Monti Sibillini