Mentre ancora non sappiamo se anche il più piccolo rischio ambientale sia stato effettivamente scongiurato, né se la struttura dello scafo reggerà alle tensioni, una cosa la sappiamo per certa: sarà la tecnologia più semplice e antica del mondo eventualmente a vincere su quella sofisticata dei moderni supertransatlantici.
La Costa Concordia era un gioiello tecnologico che si guidava con un semplice joystick, così come accade ai più moderni jet di linea. Un paese galleggiante con 5000 abitanti, centinaia di appartamenti, decine di ristoranti, sale da gioco, discoteche, palestre e piscine che viaggia di giorno e di notte a 20 nodi all’ora guidato da radar sofisticati e sala di controllo da stazione spaziale. Un paese intero che si schianta contro scogli ben visibili a causa della bravata tribale di un comandante sbruffone. Questa la triste realtà di un meccanismo che ci può sfuggire di mano da un momento all’altro. E che sembra una legge generale: a un livello tecnologico elevato corrisponde un livello di attenzione sempre più scarso, come a dire che più ci si affida e meno si controlla.
E ora siamo tutti lì davanti agli schermi a vedere come centinaia di uomini cerchino di rimettere diritta una nave sì adagiata su un fianco, ma praticamente a terra, non in fondo al mare. Un’operazione mai tentata prima d’ora al mondo che ci descrivono come tra le più complicate. E a cui ci si è preprati per oltre un anno per poi, in fondo, affidarci ai principi più semplici della meccanica, quelli che l’umanità adopera da secoli: gru, martinetti idraulici, leve, funi d’acciaio e cassoni pieni d’acqua. E cinquecento uomini di 26 paesi, come al tempo dei faraoni. Non una levitazione elettromagnetica, nemmeno una sollecitazione nucleare. Tutto apparentemente semplice. Tutto un po’ paradossale.
Una volta completata la rotazione e scongiurate rotture e lacerazioni, che sarebbero esiziali per il delicato ecosistema dell’arcipelago toscano, la nave dovrà essere trainata verso un porto dove rottamarla. Un porto che non c’era: con tutte le navi che circolano nel Mediterraneo non siamo ancora sicuri che un porto italiano sia abilitato alle operazioni. E forse i coreani hanno appena varato un vascello in grado di trasportare sul suo dorso navi di quella stazza: nel 2013, dopo millenni di navigazione, al massimo della tecnologia costruttiva del XXI secolo, cominciamo a sospettare che le navi incidentate devono essere recuperate. Lo stesso accadde giusto 101 anni fa per l’oggetto meccanico più grande costruito fino allora dagli uomini, l’inaffondabile Titanic che, infatti, affondò al suo primo viaggio.
Si dirà che in tutti e due i casi la colpa è dell’uomo e non della tecnologia, semmai di un suo uso non corretto. In fondo, Edward J. Smith viaggiava a tutta velocità nelle nebbie oceaniche e furono comunque i suoi uomini di vedetta a non scorgere l’iceberg, forse per via del freddo, e non i rivetti d’acciaio a cedere perché mal congegnati o mal costruti. Così come fu Schettino a decidere di fare “l’inchino” sopravvalutando le possibilità di manovra della Concordia e forse ignorando i segnali di pericolo. Ma queste sono scuse parziali, la realtà è che cercando di mettere sotto controllo il mare abbiamo contingentato i tempi e ingigantito le navi, suggerendo vacanze sul mare in cui il mare non è più protagonista. E non lo è nemmeno il comandante, che non guarda più il timone ma solo uno schermo graduato in cui le altre navi sono numeri tutti uguali. Funi, martinetti e contrappesi che fanno ruotare un bestione di 114.000 tonnellate, in cui nessuno dei sofisticati sistemi di navigazione funziona più, ormai ridotto a massa inerte di ferro inutilizzabile: la vittoria della tecnica semplice sulla tecnologia barocca, inutile e ridondante, di cui non abbiamo alcun bisogno.
Mario Tozzi