A partire dai primi tentativi dell’antichità fino ai giorni nostri si è sempre cercato di “ingrandire” il mondo delle cose piccole per portarle a dimensioni osservabili comodamente dal nostro occhio. Il limite di dimensioni al di sotto del quale riusciamo a vedere un oggetto ha un nome ben preciso: risoluzione spaziale. Per l’occhio umano è all’incirca pari 0.1mm, il che significa che due puntini distanti 0.1mm o più sono riconosciuti come due puntini distinti, mentre al di sotto di questa distanza vengono confusi dalla nostra vista e percepiti come un singolo punto.
La soluzione storicamente più diretta per permetterci di osservare oggetti di dimensioni minori o con dettagli più fini è senza dubbio il microscopio ottico, che nella sua versione convenzionale si spinge in condizioni ottimali fino a risoluzioni spaziali intorno ai 250 nm (ricordiamo che 1 nanometro è pari a un miliardesimo di metro).
Per andare oltre è stato necessario adottare tecniche e metodi più sofisticati. L’indagine ottica ha visto la nascita del “microscopio confocale”, che per mezzo di una piccola apertura detta ‘pinhole’ riesce ad escludere la luce non necessaria proveniente dalla parte non a fuoco del campione sotto esame, in questo modo aumentando drasticamente il contrasto e la qualità dell’immagine. Non solo: acquisendo l’immagine da un sottilissimo piano focale, permette di ricostruire in 3D il campione ripetendo la misura su altri piani vicini a quello di fuoco e combinando tutte queste “fette” sovrapponendole per ottenere una rappresentazione tridimensionale dell’oggetto sotto misura.
Ma per fare il salto di qualità ed arrivare a risoluzioni spaziali ben superiori è stato necessario aspettare i mitici anni ‘90. Da poco, precisamente nel 1986, Gerd Binnig ed Heinrich Rohrer dell’IBM di Zurigo inventarono il “microscopio a scansione ad effetto tunnel”, STM (Scanning Tunneling Microscope), che sarà probabilmente oggetto di una separata “pillola di Scienza”. È molto curioso che questo microscopio nacque “per caso”, non per intendimendo pristino: i due scienziati stavano infatti provando a costruire tutt’altro strumento, un interferometro ad altissima precisione. Ma lavorando e riuscendo in quell’intento, venne loro l’idea di allargarne le prospettive verso la microscopia.
Agli inizi degli anni ‘90 nacque un cugino di quel microscopio che utilizzava un principio totalmente diverso ma che dal precedente ereditava numerose caratteristiche, il Microscopio a Forza Atomica, comunemente noto con l’acronimo AFM (Atomic Force Microscope).
Mentre nel microscopio ottico l’elemento fondamentale è la luce, in quello AFM è una micro levetta a punta che idealmente termina con un singolo atomo (l’ultimo pallino dall’alto dell’immagine di copertina) e che viene portata a contatto con l’oggetto da osservare proprio come la puntina dei giradischi per i dischi in vinile. Questa levetta è chiamata ‘cantilever’ ed ha una certa elasticità, grazie alla quale quando giunge in contatto con il campione si piega senza spezzarsi, ovvero ‘deflette’:
Figura 1. A destra una cantilever AFM e a sinistra lo zoom sulla sua parte apicale la punta o ‘tip’.
Le cantilever hanno dimensioni di poche decine di micrometri, ovvero milionesimi di metro, e vengono costruite grazie all’enorme know-how disponibile sulla lavorazione del silicio per realizzare i circuiti integrati elettronici. Grazie all’esistenza di queste tecnologie è stato infatti possibile realizzare le levette che sono il cuore di un microscopio AFM.
Se la cantilever viene portata a toccare un oggetto la sua punta entra in contatto con la superficie di fronte. In quell’istante avviene quanto previsto dal Terzo Principio della Dinamica di Newton, il così detto “Principio di azione-reazione”: se un corpo A applica una forza F su un corpo B, allora il corpo B applica una forza di pari intensità, ma verso opposto, sul corpo A.
Nel nostro caso, se la levetta viene spinta contro un oggetto (il campione da osservare) fin tanto che vi entri in contatto e applichi su di esso una forza, allora quell’oggetto di contro applicherà la medesima forza sulla levetta, la quale essendo costituita da un travicello sporgente come in Figura 1 si piegherà in una certa misura, proporzionale alla forza subìta. Ecco dunque svelata l’origine di una parte del nome: forza. Infatti è proprio sul concetto di forza (di contatto fra due corpi) che il microscopio si basa.
Ovviamente la semplice deflessione di un’asticella non compone di per sé un microscopio. Però se si riesce a preservare quella deflessione indipendentemente dai fattori ambientali al contorno, allora si può pensare di realizzarlo. Per mantenere costante la deflessione della cantilever occorrono due cose:
1. un sistema che misuri di quanto è deflessa
2. un dispositivo in grado di mantenere costante la forza, allontanando il campione, oppure avvicinandolo ulteriormente alla punta in caso la forza fra essi tentasse di cambiare valore.
Come misurare di quanto è deflesso quel piccolo travicello, lungo solo qualche decina di milionesimi di metro ? Con un metodo molto ingegnoso ma al contempo molto semplice: la leva ottica.
Immaginiamo di avere un piccolo specchio in mano e di puntarvi contro il faro luminoso di una torcia facendolo riflettere contro il muro. Se spostiamo in alto o in basso il braccio anche di pochissimo, la macchia di luce sul muro si sposterà invece in modo considerevole:
Figura 2. Il metodo della leva ottica permette di rilevare piccolissime variazioni angolari dello specchio poiché lo spot di luce riflesso sul muro si sposta molto di più.
Il trucco sta nel fatto che il percorso ottico della luce è lungo abbastanza da amplificare l’effetto della riflessione del fascio, quanto serve per essere comodamente rilevato.
Il sistema utilizzato nei microscopi AFM è esattamente questo, in miniatura: la sorgente luminosa è un fascio laser, tipicamente rosso, ben collimato e focalizzato sul dorso della punta della cantilever, che è fatta di nitruro di silicio e quindi risulta ben riflettente. Al posto del muro è presente un sensore sensibile alla luce rossa che fornisce un segnale corrispondente alla posizione dello spot riflesso.
Questo set-up apparentemente è complesso, ma in realtà è molto semplice da realizzare, posto che si utilizzi un’adeguata lente per collimare il fascio del piccolo emettitore laser. Il sensore è costituito da una fotocella suddivisa in 4 settori (quadranti) al centro dei quali si regola inizialmente il fascio per poi misurare di quanto si è spostato quando la punta è in contatto con il campione e quindi deflette.
Figura 3. Il sistema di leva ottica applicato alla cantilever di un microscopio AFM.
Un dispositivo in grado di mantenere costante la forza inizialmente impostata è invece costituito da una scheda elettronica che implementa un controllo automatico, ovvero regola finemente un segnale di correzione in uscita sulla base di quanto sono discrepanti il valore di forza desiderato e quello misurato dal rilevatore (Detector) di Figura 3.
Si può pensare a un controller automatico come ad un componente in grado di mantenere costante una grandezza. Lo stesso fa, a grandi linee, il classico termostato di un impianto di riscaldamento: si imposta che nella stanza ci siano ad esempio 18 gradi, un sensore termico misura costantemente la temperatura della stanza e accende/spegne il sistema di riscaldamento se rileva che essa sia rispettivamente inferiore o superiore ai 18 gradi desiderati. Il valore impostato come obiettivo per il controller automatico si chiama ‘setpoint’.
Il setpoint di un microscopio AFM è quindi una forza, molto molto piccola: si pensi che uno dei due oggetti che interagiscono è la fragilissima minuscola cantilever. Stiamo quindi parlando di forze dell’ordine del nano-Newton (nN).
È però evidente che un controller automatico non basta a completare lo schema: all’uscita del termostato ad esempio viene collegato un relé che attua il comando del controller, cioè lo rende fisicamente efficace. L’analogo del relé nel caso del microscopio AFM è un movimentatore di precisione in grado di effettuare spostamenti sub-micrometrici per allontanare o avvicinare punta e campione.
Avendo ormai a disposizione tutti i componenti principali del microscopio, ecco come funziona: la punta viene spostata in una regione di interesse, di solito quadrata o rettangolare, muovendola lateralmente a destra e sinistra per poi farle percorrere la riga sottostante (o soprastante) e così via, scansionando la regione prescelta del campione:
Figura 4. Metodo di scansione x-y della punta sul campione. La punta viene spostata finemente a destra partendo dal punto ‘start’. A fine riga viene riportata a sinistra e fatta avanzare in alto, per poi ripetere il processo fino a fine zona di interesse.
Durante questa scansione riga-per-riga la punta può incontrare sia abbassamenti che innalzamenti della superficie del campione, chiamati simpaticamente “valli” e “monti”. Se trova una valle, la distanza fra punta e campione aumenta e com’è facile capire la forza diminuisce (il contrario se incontra un monte). Il sistema di controllo interviene prontamente riavvicinando punta e campione e riportando la forza di interazione al valore desiderato:
Figura 5. Spostandosi lateralmente da A a B la punta incontra una valle, la distanza dal campione aumenta e la forza di interazione di conseguenza diminuisce. Il sistema di controllo riavvicinerà punta e campione fino ad una distanza pari a dA.
Si assiste pertanto ad un continuo su e giù della punta attuato dal controller automatico che le fa letteralmente “accarezzare” la superficie del campione per tutta l’area di scansione.
A questo punto basta visualizzare di quanto il sistema si sia mosso su e giù in ogni punto per ottenere un’immagine molto fedele del campione. In pratica si ricava una rappresentazione della topografia della superficie “osservata”, dove le virgolette sono d’obbligo stante che qui non si usano gli occhi. L’immagine viene creata da un computer collegato al sistema e in grado di ricevere le misure del segnale di topografia; di solito appare riga per riga direttamente durante l’operazione di scansione:
Figura 6. Scansione di una regione quadrata di 1.1x1.1 micrometri su campione di ossido di titanio. In alto l’immagine topografica in falsi colori con scala verticale di appena 5 nanometri. In basso la corrispondente vista 3D. Si osserva una impurità molto ben distinguibile [2].
Ecco dunque svelato il secondo termine: forza “atomica” non ha nulla a che vedere con i reattori nucleari o peggio con le bombe, ma deriva dal fatto che la risoluzione laterale di questi microscopi è incredibilmente alta, fino a riuscire a distinguere i singoli atomi (da cui il termine).
Ovviamente per arrivare a risoluzioni così spinte il microscopio deve essere protetto termicamente e meccanicamente, l’analisi deve essere compiuta senza disturbi e il campione deve essere particolarmente pulito. La seguente immagine mostra fin dove può arrivare questa tecnologia:
Figura 7. Immagine AFM del grafene, una struttura a nido d’ape composta da atomi di carbonio.
Quando nacquero i laboratori di ricerca a Marciana (Technobiochip e poi Polo Nazionale Bioelettronica) l’opinione pubblica isolana era molto scettica, abituata al proprio tram-tram con la gestione dei turisti estivi, per nulla interessata a trarre spunti e benefici da altre iniziative, persino preoccupata per la salute pubblica perché ignoti laboratori di ricerca chissà quali gas tossici avrebbero liberato nella pulita aria marcianese.
In questo ambito già di per sé così accogliente ed amichevole, la stampa locale di allora (non certo Elbareport, parlo di giornali dell’epoca ormai defunti di cui manco ricordo il nome) non esitò, magari inconsapevolmente, a rincarare la dose, titolando in prima pagina “A Marciana si costruiscono microspie atomiche” !
Non ho mai capito se quel ‘co’ mancante che fa una bella differenza (fra la parola ‘microspia’ e la parola ‘microscopia’) fu una dimenticanza o un affondo contro i nascenti laboratori, ma di certo non contribuì a farci ben volere sul territorio.
Poi il tempo aggiusta ogni cosa, oggi c’è anche chi ricorda con nostalgia tutto quell’indotto silenzioso, pulito ed educato di circa 80 ricercatori che vivevano e spendevano sull’Isola, portando famiglia, amici e parenti. Forse qualcuno rimpiange quei laboratori dove fu costruito il secondo Microscopio a Forza Atomica d’Italia, in un paesino sperduto di una piccola isola.
Chi volesse approfondire la storia di questo tipo di microscopia si può riferire all’articolo [3] che abbiamo pubblicato recentemente e che raccoglie i principali contributi italiani su questo ramo della Scienza.
Marco Sartore
Riferimenti bibliografici
1. "Surface Studies by Scanning Tunneling Microscopy", Binnig, G.; Rohrer, H.; Gerbe, Ch; Weibe, E. . Physical Review Letters. 49 (1): 57 (1982). https://10.1103/PhysRevLett.49.57
2. “Influence of GLAD Sputtering Configuration on the Crystal Structure, Morphology, and Gas-Sensing Properties of the WO3 Films”, Zarzycki et al., Coatings 10 (1030):1030 (2020), https://10.3390/coatings10111030
3. “Probing Italy: A Scanning Probe Microscopy Storyline”, F.Dinelli et al, Micro, 3(2), 549-565 (2023); https://doi.org/10.3390/micro3020037