La tutela, la ricerca, la didattica e la comunicazione dei beni culturali, con particolare riferimento a quelli archeologici, sono il settore nel quale sono impegnato professionalmente e nell’ambito del quale insegno all’Università. Alla fine della mia carriera, una cosa potrò dire di avere insegnato senza sosta, naturalmente per chi vuole stare ad ascoltare. Soprattutto in un campo duro da coltivare, come quello che loro ed io ci siamo scelti, si possono, forse, ottenere risultati se all’estro del singolo si aggiungono armonia, condivisione, spirito di servizio. Al contrario, se non esistono progettualità, concertazione, sintonia (vedete in quanti modi può essere articolato il concetto di unità?), il fallimento è sicuro. La vera grandezza è di chi sa fare un passo indietro a vantaggio di un compagno di strada, non di chi sgomita scompostamente per affermare non sa neanche lui che cosa e senza avere un progetto e una comunità di intenti.
Avete già capito a che cosa mi riferisco: al faticosissimo processo di unificazione amministrativa dell’Elba. Si farà, non c’è dubbio. Nelle ultime settimane ho visto e letto delle scontate, ancorché tardive, adesioni di alcuni eminenti personaggi isolani, di quelli che, prima severissimamente contrari, ora saltano entusiasti sul carro dei probabili vincitori. I loro “salti” non saranno belli a vedersi ma stanno ad indicare che il fronte dei secessionisti si è indebolito. Non è di costoro che voglio parlare.
Ora, più che mai, gli isolani si apprestano a divenire, non dico “padroni” del loro destino ma, quanto meno, responsabili e, stavolta, la responsabilità è pesante. La situazione forzosa, e storicamente superata, di un’Elba divisa in otto comuni, più volte e giustamente additata come una malattia invalidante da persone diverse fra loro ma intelligenti e sensibili (Mantovani, Marchetti, Mazzei, Rossi), sta toccando, adesso, il culmine. Le singole comunità, prese una per una, possono anche avere forti capacità di reazione (l’isolano dà il meglio di sé nelle situazioni negative) e fare miracoli. Ma i miracoli non bastano se non si sa fare l’ordinario, le cose normali. La divisione amministrativa sta ora facendo più danni della grandine, non solo dal punto di vista materiale (risorse sottratte ai bisogni materiali usate per la riproduzione dell’apparato) ma anche dal punto di vista civile e morale.
La divisione in otto comuni sottrae alla popolazione la sovranità che di diritto le spetta. Avevo già scritto che una comunità unita di fatto ma non a livello istituzionale, è umiliata e costretta a vedere che le decisioni che la riguardano, sbagliate più spesso che giuste, vengono prese da altri. Da “altri”, non “altrove”, perché se è vero che alcune “decisioni fondamentali” sono imposte da Enti esterni, è comunque altrettanto vero che vi sono deliberazioni prese in loco ben al di fuori dei mandati che gli elettori hanno dato agli eletti. Inoltre, la proliferazione dei Comitati indica debolezza della rappresentanza democratica (quindi poca democrazia) e inadeguatezza dell’assetto istituzionale. Quando va bene, è successo in altri paraggi della Toscana (Piombino, Baratti), i Comitati, se hanno hanno unità di intenti, energie e continuità di azione, alla fine costringono le Istituzioni ad accettare il dialogo o si fanno ascoltare. Se non altro, costringono il Comune a fare il consueto capriccio: “questa amministrazione va avanti per la sua strada, forte del mandato affidatole dalla volontà popolare”, segno, questo della lagnosa arroganza di molte delle cosiddette istituzioni democratiche.
Il black-out della comunicazione fra governi e cittadini provoca sprechi e motivate proteste finché si tratta di questioni marginali ed estetiche: le brutte aiuole del centro, il bike-sharing organizzato male, il cartellone degli spettacoli poco o niente pubblicizzato. Il problema è che, spesso, è in gioco il governo del territorio, un fatto molto concreto e per niente astratto, che comprende funzionamento dei trasporti, salute, istruzione, ottimizzazione del bacino di approvvigionamento e delle risorse economiche. Lasciamo da parte, per il momento, la cultura. Quando improvvisazione e frammentazione prevalgono sulle forme di organizzazione e di governo, ecco che allora il mondo che ci circonda, con i suoi paesaggi, non solo diventa più brutto e più sporco ma anche pericoloso. E’ il paesaggio che trasmette le malattie (la terra dei fuochi, in Campania), che va sottacqua dopo due giorni di pioggia (non c’è bisogno di esempi), che viene cementificato fino a diventare inservibile e sterile, non più riproducibile.
Se territorio e paesaggio dell’Elba sono un tutt’uno, così come una sola è stata la storia di quest’isola, da sempre, uno solo deve essere il suo governo, non si scappa. Anche il Parco dovrà essere completamente diverso da quello che è stato finora. Uno spazio e un tempo di confronto, dove si incontrano le diverse competenze locali e, qualora esse fossero assenti, si decide in maniera trasparente dove andare a reperirle. Hanno ragione le persone (fra cui Marco Mantovani) che hanno indicato il Parco degli anni successivi a Tanelli come porto delle nebbie, ente burocratico, puro centro di potere, contenitore impiegatizio, che ha danneggiato l’arcipelago, favorendo la rendita (immobiliare) a discapito di un giusto ed equilibrato profitto. E’ vero che l’offerta turistica andava potenziata oltre la sempre più asfittica balnearità. E’ vero che le nostre montagne e i nostri boschi sono in uno stato di degrado senza precedenti. Stacchiamoci dal livello delle chiacchiere autoreferenziali e autoconsolatorie (l’isoletta verde e blu) e seguiamo alcune, meritorie, iniziative (Il Viottolo, o l’Isola dei bimbi, per esempio): vedremo sentieri abbandonati da anni, discariche edilizie abusive, rifiuti.
Ma l’Elba è un patrimonio da gestire in maniera condivisa e partecipata, non può essere il terreno sul quale si scontrano interessi dalle gambe corte e dal breve respiro. Non ci sono altre spiagge da riempire di ombrelloni ma ci sono campagne da recuperare e da rimettere a coltura prima che ci venga tutto addosso. E non si può contare solo sui miracoli e sullo spirito di reazione delle comunità. Serve la politica vera, seria e responsabile, non la difesa degli interessi del pollaio.
Scrivevo, tempo fa, che il tempo passa…ma non è galantuomo. Ne sono sempre più convinto: se è vero che non esistono spostamenti irreversibili della fortuna verso uno piuttosto che verso altri lidi, è anche vero che non si può, passivamente, aspettare che i problemi si risolvano da soli o, peggio, che altri li risolvano per noi, magari pretendendo poi, di vantare delle ragioni. Soprattutto, non è detto che un treno ripassi, una volta perso. E’ ora di andare: a che serve fare dopodomani, male, quello che si può fare oggi, bene.