Tre punti, tre linee, tre punti: SOS, richiesta di aiuto in alfabeto Morse, il primo linguaggio dei segnali radio. Mi è rimasta nella mente la sequenza di segni che il soldato americano Joe Bonham si ostina a fare con la testa sul cuscino, avendo perso in guerra le mani e le gambe, la vista e l'udito. Mi è rimasta nella mente perché l'audiodramma E Johnny prese il fucile realizzato da Sergio Ferrentino, con Marco Baliani, Roberto Recchia ed Elena Molis, che ho appena “visto” al teatro Ariston di Mantova, mi ha semplicemente sconvolto, me e le altre centinaia di spettatori, come evidentemente si proponeva di fare. Mi ha portato al centro della guerra, al centro del tronco e della testa di chi vuole farsi ostinatamente sentire. Non è giusto dire di aver “visto”, perché sulla scena succedeva davvero poco, ma le cuffie date a tutti gli spettatori, con i microfoni binaurali, in cui si è totalmente immersi nei suoni, invitano solo ad ascoltare e ad entrare nell'esperienza di chi dalla guerra è stato interamente devastato. “Non ho più niente, sono solo un pezzo di carne che continua a vivere.”
Ma questo pezzo di carne che continua a pensare, che ricostruisce a tratti l'unica notte passata con la fidanzata prima di partire per la guerra e che chiede di uscire dalla sua stanza per andare a raccontare in alfabeto Morse l'assurdità della guerra, segna la distanza siderale tra i governi e i parlamenti che decidono di “entrare in guerra” e la gente comune, le singole persone che ne pagano le conseguenze sulla propria pelle. L'ambientazione è la prima guerra mondiale, ma il romanzo scritto da Dalton Trambo nel 1938 è un cupo avvertimento di quello che sta per accadere, tanto che il libro esce nel '39 e viene fatto sparire prestissimo dalle librerie.
“Dio, hanno continuato a tagliare. Certo, è molto meno costoso tagliare una gamba che non ricucirla. Con una guerra che continua ad andare avanti, non hanno molto tempo. Sono tutti stanchi. Ma come può un medico ridurre un uomo allo stato in cui mi trovo ora e lasciarlo vivere?”
Quella di Joe è la coscienza che resta viva e vuole urlare al mondo la sua follia, e la voce di Baliani, circondata dagli effetti sonori dei passi dell'infermiera, dei punti e delle linee della testa sul cuscino, dai suoni della memoria della vita normale, ti attraversa mentre ascolti a occhi chiusi e ti paralizza, perché dopo un po' ti ritrovi incollato alla poltrona senza sentire più avvertire né le braccia né le gambe e alla fine ringrazi il cielo di poterti alzare, di essere vivo e di essere lontano dai luoghi di guerra, ma non da un clima che la rende ancora reale e possibile a poche migliaia di chilometri da noi, nei primi anni Duemila.
Un effetto straniante, del tutto in contrasto con quello che avevo vissuto fin qui in giornate in cui ciascuno fa il proprio percorso tra libri, autori, incontri in una splendida città rinascimentale. Un effetto che per qualche ora ti fa entrare in un'altra dimensione, ti fa toccare con mano quella guerra che troppi uomini e donne di troppi Paesi hanno in casa loro, con armi costruite anche dalle parti nostre, quella guerra che in migliaia fuggono affidandosi a banditi, ammassandosi su barconi di ogni tipo, rischiando la vita in mare. Perché tutti temono che da qualche parte ci sia una bomba, quella bomba che nello spettacolo parla, con la voce di Elena Molis, mentre viene lucidata per l'uso, e dice di attendere Joe, come milioni di altri, soldati e non, per cancellarne le vite o per devastarli, in quella guerra e in quelle altre infinite che arrivano fino ai giorni nostri.
Un'ora e venti di spettacolo, un'ora e venti di sospensione di tutto il resto, un esercizio di attenzione mirata, totale, che servirebbe a tutti, che non ha nulla a che vedere con il fare contemporaneamente tre, quattro o dieci cose non essendo mai veramente da nessuna parte, neppure nelle storie che ascoltiamo e che viviamo, sempre immersi nella “distrazione della distrazione della distrazione” di cui parlava T.S. Elliot (tanto amato e citato da Tiziano Terzani).
Il Diario di oggi dal Festivaletteratura è questo, è solo questo, perché ho deciso di tenermi dentro quest'esperienza con tutta la sua intensità e raccontarla subito, a mente fresca e ancora sconvolta, con la densità dell'emozione e della ragione, per non perderla, per non sostituirla o condirla o mescolarla con altre voci, con altre storie, con altre distrazioni.
Solo la foto (copyright Festivaletteratura) non è dello spettacolo, ma è di un'installazione sonora altrettanto toccante nel Famedio di San Sebastiano, dove per due ore si possono ascoltare testimonianze e letture di diari e lettere di soldati della prima guerra mondiale.
Luciano Minerva