Certo i Rom, gli Zingari, sono un problema. Non di ordine pubblico, come ogni tanto la cronaca sembra suggerire; o almeno non più di altri gruppi non integrati nella nostra società. E infatti ora li troviamo sempre più spesso assimilati ad altri non-integrati per definizione, i profughi, i rifugiati, i clandestini: uomini e donne (e bambini) che appartengono a società più o meno vicine alla nostra, più o meno condivise, più o meno riconosciute, che si sono dis-integrate spesso anche con il fattivo contributo della nostra, e hanno lasciato il loro mondo cercando accoglienza nel nostro. Finché erano in numero corrispondente alla nostra necessità di manodopera a bassissimo costo li abbiamo integrati; quando quel bassissimo costo (per noi) è apparso comunque più alto del niente che era rimasto loro nelle loro terre, hanno cominciato a riversarsi nelle nostre, e si sono determinate condizioni di sovrannumero fortemente problematiche per tutti. Il che, come al solito, genera reazioni di paura, come è noto non buona consigliera.
Ma i Rom sono un’altra storia. Sono appunto un problema nel senso proprio del termine: non un puzzle nel quale basta trovare, con maggiore o minore pazienza, il posto giusto per la tessera giusta; ma un caso irresolubile, per il quale neanche la buona volontà o la grande disponibilità sono più che tanto utili. Innanzitutto i Rom sono un “popolo”, come gli Ebrei (con un’infinità di distinzioni al loro interno). La mia formazione e la mia visione del mondo non mi aiutano a capire cosa questo voglia dire: ho più facilità a interagire con gli individui, con le persone, che con i “popoli”; ma questo evidenzia un mio deficit di comprensione che non può modificare il dato. I Rom sono un popolo antichissimo, e da tempo immemorabile vivono più o meno come adesso; e il loro stile di vita sembra identificare la loro cultura e la loro storia: sono così, e vogliono essere così, e se cambiassero stile di vita cesserebbero di essere Rom.
Lo stile di vita: così diverso dal nostro, provoca in noi un senso di ripulsa, di rifiuto. Non mi interessa qui dire se ciò è giusto o evitabile; è così e lo è stato nei secoli, che hanno visto sistematicamente i Rom oggetto di discriminazioni, di persecuzioni, di tentativi di sterminio –e questo non deve aver certo accresciuto simpatia e rispetto per chi non apparteneva al “popolo Rom”-; eppure sono sopravvissuti, proprio perfezionando i loro sistemi di difesa sociale, primo fra tutti il mantenimento del numero. “Continuano a fare figli, tanti figli”, si dice come un rimprovero: ma se non avessero fatto così sarebbero scomparsi da secoli, e scomparirebbero in breve tempo; sono pochissimi (forse una quindicina di milioni ma sparsi in tutto il mondo) e divisi in una moltitudine di nuclei di solito a carattere familiare, e le famiglie si ‘alimentano’ coi figli. Già, ma i figli poi chi li alimenta? Fino a qualche decennio fa da noi esercitavano il mestiere di calderai –la parola stessa sembra derivare proprio dalla loro lingua- e di domatori di cavalli (ma anche violinisti e liutai, e artigiani di piccola oreficeria)-; poi sono arrivate le automobili e il moplen, e i Rom hanno perduto la possibilità di esercitare le loro “arti e mestieri” di nomadi. Soprattutto i maschi della comunità si sono trovati disoccupati, e per “alimentare” i figli hanno dovuto cominciare a impiegare le donne –accattonaggio, lettura della mano (fascinosa ma colorata di stregonesco)-; e poi anche i figli –accattonaggio, piccoli furti-: tutte attività poco gradevoli e poco gradite alla gente, però poi gli zingari se ne vanno e fino alla volta dopo si cerca di non pensarci. I rapporti fra la comunità “ospitante” e quella “ospitata” in genere non sono buoni, lo si sa bene. “Noi” vorremmo che loro cercassero di diventare come noi, che si insediassero, che cercassero dei lavori “normali”: cioè che smettessero di essere quel che sono, appunto un “popolo altro”; e tutti gli sforzi che compiamo in quella direzione di fatto vanno verso la loro “eliminazione” come popolo, come cultura, come società. Inconsapevolmente, e senza la malvagità cosciente di chi ha a più riprese nella storia tentato di risolvere la questione zingara, l’unica soluzione che ci viene in mente è il genocidio. Lo proponiamo nella forma più accettabile, più delicata, più “indolore” del “non li voglio vedere, non li voglio incontrare, non voglio dovermi preoccupare di loro”, ma nella sostanza vorremmo che scomparissero.
Questo è il problema dei Rom: che non c’è soluzione oltre il lasciare che continuino la loro vita nel loro modo, certo chiedendo loro perentoriamente di non violare le regole della nostra, ma anche comprendendo che questo sarà possibile solo fino a un certo punto. Altrimenti prepariamoci al genocidio.
In genere chi parla degli Zingari non suggerisce soluzioni, ma manifesta solo il proprio disagio, che è certo legittimo –e anche facilmente dichiarabile perché trova molto consenso e costa poco: in fondo non ci obbliga a nulla, e ci permette di sentirci dalla parte delle vittime- ma non sposta di un millimetro i termini del problema. Quando le cose sono complesse, parlarne in termini semplici come spesso accade –ed è addirittura richiesto dai correnti media di comunicazione- è poco utile, sovente rischioso, sempre inopportuno. E soprattutto ci induce sempre di più a pensare che la vita sia solo nel nostro presente, senza storia e senza spessore. I Rom –forse originari della lontana India- sono compresenti con noi da tremila anni, tollerati e tolleranti. Sarà una qualche trovata guascona a cambiarne storia e destino?
Luigi Totaro