Giorni fa è venuto a trovarmi un poeta. Non lo avevo mai visto prima. Sembrava uscito da un racconto di Hemingway, anche se confesso che non li ho mai letti ne' mai li leggerò. Prima devo perlomeno finire tutte le storie. Almeno quelle di Erodoto, Tucidide, Diodoro Siculo e Tito Livio. E tutte le geografie. Ma forse Pausania lo approfondiro' in un'altra vita, al suono di una chitarra. Dicevamo che è venuto, a casa mia a Poggio sull'Isola d'Elba tra i monti, l'altro giorno un poeta. E' un lupo di mare che abita una barca qui sotto a La Marina. Non è un barcone, ma si capisce che il nostro amico ha ambizioni da traghettatore acheruntico, uno che accompagna le anime che si sono perse o semplicemente gli indica la strada. Ho detto che ha ambizioni, non ho detto che e' un guru junghiano. Vabbe', ma non perdiamoci in quisquilie. Il mio nuovo amico si presenta e si mette a parlare di poeti. A un certo punto la conversazione finisce su una passione comune, un certo Rilke, un poeta tedesco, morto da un pezzo. Non sono molti i poeti dell'era moderna che ho letto, e di questi ne ho amati davvero pochissimi. In quelle dita della mano devo per forza enumerare Rilke. Ora, di Rilke, come molti, conoscevo dai tempi dell'università le mirabilianti Elegie Duinesi, delle quali, tra parentesi, il nostro nuovo amico Caronte Metempsicotico ha fatto delle letture in italiano che sono davvero molto belle e si trovano su youtube, se guardate sul mio facebook metterò il link. Ma oltre alle mirabilianti il poeta tedesco ha scritto anche una roba favolosa su Orfeo e Euridice. Non è questo il luogo per parlare del mito e della religione di Orfeo, che non bastano dieci anni. Ma l'altra fama di Orfeo, uno dei piu' grandi di tutti i tempi, sia come testi che come musiche, e poi per l'interpretazione, era la musica. Per non parlare del numero dei fan devoti, che nessuna delle grandi star moderne della musica e della scrittura ha mai piu' saputo eguagliare, era appunto un'altra categoria. Ci basterà pensare che il Dio dei Confini e della Comunicazione (Thurms da noi e Hermes presso i greci), raccolto il guscio di una tartaruga Caretta Caretta, vi fissò delle pelli di cinghiale tese su delle corna di muflone. Forse la tartaruga non era una Caretta, le pelli di maiale e le corna di toro, ma qui fa poca differenza. Con questo accrocchio in mano si presento' da Apollo egliene fece dono. Era la prima chitarra della storia (lira/lyra e cetra/kytar). Almeno un bel paio di millenni dopo inizia la nostra storia.
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Nel 493 dopo Cristo, nella regione dell'odierna Tunisia, nasceva quel nobil uomo che sarebbe passato alla storia come San Cerbone. Dopo un'infanzia agiata e fatta di benessere e di studio in una buona famiglia si fece cristiano e divenne presto vescovo, se è attestato che già lo era in una diocesi africana quando fu costretto a scappare in Italia dalla "gestapo" di Guntamundo e Trasamundo. Questi Vandali, che arrivavano dal nordoriente d'Europa, ce l'avevano a morte coi capipopolo, quali vescovi e cardinali in quanto "dirigenti spirituali" dei popoli sottomessi. per fortuna tutto finì nel 522 quando Cerbone e i suoi colleghi Felice, Clemente e Giusto si erano già trasferiti sulle coste della Toscana di fronte all'Elba al seguito del loro Maestro Regolo. Tutti questi avrebbero poi goduto dell'onoreficenza di "santi della chiesa cattolica e apostolica".
Ci sono molte storie sul loro conto. Pare che agli inizi dopo il loro arrivo si trovassero in una grotta nei dintorni di Populonia che da Regolo prese il nome. Mantennero comunque tutti quanti i titoli che avevano in terre puniche, e vennero assegnati come vescovi a varie diocesi delle attuali Toscana e Lazio.
Non gli erano bastati i Vandali in Africa. Ora c'erano i Goti in Etruria. Infatti, il loro grande maestro Regolo fu il primo ad essere arrestato e giustiziato dagli uomini di re Totila. Sembrava che i vescovi suoi discepoli sarebbero stati risparmiati. Ma Cerbone, che era impegnato a capo di una "partigiana" organizzazione, fu arrestato per aver dato accoglienza a dei ribelli ricercati dai Goti. Non gli sarebbe spettata la cerimonia del boia come a Regolo, ma fu condannato insieme ad altri a morire sbranato in pubblico da un orso inferocito nell'arena. Di fronte a un folto pubblico divertito dai giochi di morte, che comprendeva lo stesso Re, fu la volta di San Cerbone. Sulla secca terra del "campo sportivo" venne liberato l'orso preventivamente fatto letteralmente imbestialire. Il povero animale, coi nervi a pezzi brutalizzati dal circo, si avvento' sul nostro uomo ringhiando con la bava alla bocca. Ma mentre il pubblico astante aspettava in fremito lo spettacolo della lacerazione delle carni e il sangue che schizzava, dovette invece assistere ad uno spettacolo molto ma molto piu' grande. L'orso infatti, quando incrocio' lo sguardo pieno d'amore di Cerbone per nulla impaurito, per nulla impaurito nemmeno lui gli si rotolo' ai piedi strusciandovisi come un cane col suo migliore amico.
Certo che ebbe fortuna, ci vuole anche quella. Ma la fortuna. si dice. aiuta gli audaci. E tra gli audaci predilige quelli con il cuore grande.
SUAE FEROCITATIS OBLITUS, DEFLEXA CERVICE, SUBMISSOQUE HUMILITER CAPITE, LAMBERE EPISCOPE PEDES COEPIT
Una volta salvatosi dall'Orso e dai Goti si sarebbe potuto dedicare finalmente a una vita tranquilla, senonche' lo attendeva una ben più dura battaglia. Si erano coalizzati infatti contro di lui molti gentiluomini populoniesi, gente di un certo peso politico, un po' come certi piombinesi dei giorni nostri. Forse perche' infastidi dal suo eccessivo impegno umanitario. O forse davvero come si dice per l'orario troppo-troppo-presto della messa, che il Vescovo aveva deciso di celebrare all'aurora. Fecero un comitato cittadino e mandarono una lettera al Papa protestando e chiedendo che il Vescovo venisse cambiato oppure spostasse la messa a un'ora più consona. Era il 554, Papa Vigilio convocò Cerbone a Roma e questi si mise in viaggio con tutto il suo seguito, ma non prima di averli fatti un po' incazzare avendoli svegliati prima dell'alba per dire messa. Arrivati verso le foci del Cornia venne loro sete, ma l'acqua faceva schifo. Vennero fuori dalla boscaglia due bei cervi femmina. Cerbone le avvicinò facendo una specie di segno della croce e queste gli si domesticarono. Il "santo" le munse e diede da bere del buon latte a tutti i suoi compagni di viaggio. Per la strada incontrarono poi qualche malato, che Cerbone curo'. A Roma, invece di entrare nel fastoso palazzo del Papa, preferi' incontrarlo in campagna, ai Prati di Nerone. Mandò cosi una delegazione a chiedere di questa possibilità al Papa che accetto. Nel mentre che il Papa si organizzava per raggiungerlo, a forza di segni della croce, Cerbone aveva gia' addomesticato un folto branco di oche e altra selvaggina che lo seguiva passo passo come ipnotizzata. Quando il Papa arrivò e vide tutto quel ben di dio gli venne l'acquolina in bocca e già ragionava su come cucinarle. Ma Cerbone sparo' un altro paio di segni della croce e la selvaggina si ridestò e scomparve nel bosco. Ora che aveva fatto capire al Papa chi era si poteva procedere all'incontro. Cerbone propose al Papa di passare un paio di giorni insieme e il Papa a quel punto volentieri accettò di averlo come ospite. Una sera in terrazza, chiacchierando con vista sulle luci di Roma, Cerbone chiese a Vigilio di aspettare svegli l'alba insieme. Alle prime luci dell'aurora Vigilio sonnecchiava sulla sua comoda poltrona quando Cerbone (oramai erano amiconi) gli pestava il piede bisbigliandogli di alzare gli occhi al cielo. Difficile per noi capire come fece, rincoglioniti come siamo dallo yoga kundalini e altri karma occidentali, fattosta' che insieme quel mattino Cerbone e Vigilio videro gli angeli cantare Gloria in excelsis accompagnati da un divino tintinnar di cetre e lire. (ecco cosa c'entrava la chitarra!)
Il Papa capì bene perchè la messa si doveva tenere prima che sorgesse il sole, e i poveri ricchi signori populoniese dovettero rassegnarsi a non fare tardi e bere troppo la sera. Da quella volta diventò un'usanza che quando un Vescovo di Populonia andava dal Papa, quest'ultimo nel riceverlo si alzasse in piedi e gli andasse incontro ad abbracciarlo come un vecchio buon amico. Nessun altro aveva diritto a questo speciale trattamento confidenziale, e questo costume durò almeno fino al 756, anno in cui, forse proprio per non far più alzare il Papa, la Diocesi di Populonia venne cancellata, e dopo almeno 1500 anni di gloria, i suoi capi religiosi non avrebbero contato più nulla. Ma per fortuna ne seguirono di uomini importanti e potenti nella vicina Piombino.
Cosi Cerbone risolse anche la diatriba con gli avventori della sua Diocesi. Ma le sue prove di Giobbe erano ben lungi dall'essere esaurite, e per trovare la pace dovette aspettare ancora un po'. Si apprestavano a scendere in Etruria dalle Germanie i Longobardi, e la sorte dei grandi maestri spirituali era in bilico. Già era giunta voce delle crudeltà compiute dall'armata del Duca Gummarith in cammino verso la citta'. Stavolta forse non sarebbe bastato ammansire un bell'orsacchiotto. Così Cerbone e i suoi follower (seguaci - per chi non segue i social) scapparono all'Elba, "che tanto laggiù o chi volevi che gl'andasse a cercar". Sbarcati alla Marina di Poggio e Marciana presero subito possesso delle loro abitazioni e gli fu trovato un luogo dove meditare e/o nascondersi nel caso che arrivassero anche lassù gli uomini di Gummarith. Passati gli ottanta e con tutte quelle che aveva dovuto superare nella vita, Cerbone fece testamento ed espresse la volontà di essere sepolto a Populonia, anche perchè di essere portato a Cartagine non si sarebbe mai sognato di chiederlo anche se i suoi fedeli avrebbero fatto questo e altro per lui. Morì il 10 ottobre, in alcuni testi è riportato il 573, in altri il 575, fu caricato a bordo di una nave che da Marciana Marina lo portò fino a Baratti, proprio dove era sbarcato da un barcone giunto dall'Africa una cinquantina di anni prima.
E con questa le sue avventure erano finite. Almeno quelle del suo corpo. Dato che la sua anima si dice vegli sui suoi luoghi del cuore: Cartagine, Populonia e l'Elba. Si potrebbe anche dire, accompagnati da una chitarra, che veleggi come una platonica biga nei cieli accanto a Thesan ed Eos in quegli attimi in cui si annuncia l'arrivo del Carro del Sole.
Mentre colgo alcune belle castagne lo ringrazio. Grazie per averci portato gli imenotteri che si mangiano le mosche cinipidi galligene. E ripenso a quelle processioni da Marciana che facevano i nostri antenati negli anni di carestia per andare a chiedere a San Cerbone l'ennesimo miracolo cantando in coro senza chitarra. Alla sezione baritonale che intonava "O San Cerbone fate piovereee!" rispondevano più bassi "Tre per riccio! Tre per riccio!".
Angelo Mazzei
Nota: questo racconto è in parte molto liberamente ispirato al Capitolo XI del Libro III dei Dialoghi di Gregorio Magno.
http://www.documentacatholicaomnia.eu/01p/0590-0604,_SS_Gregorius_I_Magnus,_Dialogorum_Libri_IV-De_Vita_et_Miraculis_...,_LT.pdf