5. da Zitto e nuota! - Preparativi per la partenza
Arrivammo ai primi di settembre in un attimo. Ogni tanto, passando davanti al molo, avevo guardato í panfili e gli yacht dondolanti ormeggiati alla banchina e avevo provato un crampo allo stomaco. Più volte mi ero chiesto come avevo fatto a cacciarmi in un pasticcio del genere. Adesso ero prossimo a pagarne le conseguenze.
L'idea di stare tanto tempo racchiuso nello spazio ristretto di una barca mi preoccupava. Lo dissi a mia moglie, con l'intento di commuoverla, e lei fu d'accordo con me: «Potrai fare comunque delle belle passeggiate sul ponte. La barca, in fin dei conti, è lunga ben sedici metri, mi hanno detto».
E qui mi è d'obbligo fare due osservazioni.
La prima riguarda il senso della misura insito in alcune persone, in modo particolare nelle donne. Per mia moglie (che non aveva ancora visto la barca, come me, del resto) sedici metri potevano essere qualunque lunghezza, in realtà. Sono fermamente convinto che se le avessero presentato il Cavodurno grande quanto il transatlantico Michelangelo dicendole che era sedici metri, non avrebbe fatto una grinza, l'avrebbe accettato come la cosa più nor¬male di questo mondo...
La seconda osservazione, circa il consiglio di mia moglie di passeggiare sul ponte del Cavodurno, era che in quei sedici metri di lunghezza erano compresi i tre metri di sporgenza a prua, fuori della barca, dell'albero anteriore (credo si chiami bompresso) e ben difficilmente qualcuno, a meno di essere uno spericolato acrobata, avrebbe potuto passeggiarvi sopra. Restavano tredici metri, nei quali supponevo (e i fatti mi dettero ragione) si trovasse una gran quantità di cose, per terra, a metà altezza e per aria. Dissi tutto questo a mia moglie, che per l'occasione però si limitò a sorridere con l'aria di chi ha gradito una battuta dí spirito. Non c'è nulla di più irritante che non essere presi sul serio quando si dice la verità. Un giorno capiterà un guaio, per questo motivo, ne sono certo.
Ineluttabilmente, giunse il giorno della partenza. Cominciai, tre giorni prima, ad autosuggestionarmi per convincermi che mi sarei divertito senz'altro, che sarebbe stata una piacevole e nuova esperienza e che, probabilmente, il tempo sarebbe stato bellissimo. Cominciai anche, tre giorni prima, a preparare le cose che mí sarei dovuto portare. Credo che questo, per me, sia una chiara spia che gli anni sono abbondantemente passati, in questi ultimi tempi. Una volta, infatti, se dovevo partire anche per un lungo viaggio, cominciavo a preparare le mie cose qualche ora prima, con calma; in genere non dimenticavo mai nulla. Adesso invece comincio a mettermi in agitazione tre giorni prima e dimentico puntualmente di portare le cose più necessarie. Scrivo anche, con la cera, l'elenco di cosa man mano mí viene in mente. Uso la cera perché è quella che scrive meglio di ogni altro materiale, sui vetri delle finestre. Ho preso l'abitudine di scrivere sui vetri da quando ho preso l'abitudine di perdere, all'ultimo momento, la lista delle cose da portare.
Normalmente mi vengono in mente «molte» cose da portare e che, coscienziosamente, annoto sui vetri. Poi mi rivengono a mente il giorno dopo, e le riscrivo. Qualche volta penso di averle già scritte, e le cancello. A conclusione dei preparativi tutti i vetri sono così pieni di scritte, sottolineature e cancellature, che occorre preparare i bagagli con la luce elettrica accesa anche di giorno.
Il giorno prima della partenza ascoltai, alla televisione, le previsioni del tempo: dissero che era bello stabile, con mare calmo, (per fortuna non dissero, loro, che il tempo era dichiarato). Si prevedeva un mare calmo e senza vento per almeno una settimana. Ebbi l'impressione che l'annunciatore facesse uno sforzo a dire che sarebbe stato bello per una settimana: a guardarlo sembrava che lui avesse voluto dire due settimane, ma che diceva una per eccesso di prudenza.
Mi consultai con Maurizio, futuro compagno di viaggio. Era comandante di navi e perciò abituato al mutevole carattere del mare.
«Non ci sono problemi», mi disse. «È bello, dichiarato.»
Avrei preferito che non avesse usato l'ultima parola. Telefonai a Pieraugusto, capo della spedizione.
«Non ci sono problemi», mi disse. «È bello, dichiarato.»
Aggiunse anche che con un tempo come quello avremmo potuto gustare il divertente spettacolo di decine e decine di delfini che giocavano davanti alla nostra barca. Mi chiese se avevo pensato a portare la macchina fotografica e la cinepresa; risposi che sì, ci avevo pensato. Fu molto prodigo di consigli, anche, su come avrei potuto riprenderli meglio a seconda della posizione in cui si fossero presentati. Mi disse:
«Se ti metti vicino allo strappo della bigotta superiore, dove c'è la sartia prodiera, non rischi che gli stralli vengano davanti all'obiettivo. Altrimenti c'è pericolo che la foto venga rovinata, magari dal patarazzo della testa di moro di parrocchetto».
Lo ringraziai e gli promisi che me ne sarei ricordato, al momento opportuno. Non avrei certo voluto che la testa di moro del parrocchetto fosse venuta a rovinarmi la foto dei delfini.
Partimmo, infine, con due auto, verso il Cavodurno che in quel periodo sostava nel porto di Livorno. Sul tra¬ghetto che dall'Elba ci portava in «continente» venne a trovarci il comandante della nave, collega di Pieraugusto e di Maurizio. «Farete buon viaggio», ci disse. «Il tempo è dichiarato. Avete portato la cinepresa? Troverete centinaia di delfini, sulla vostra rotta.» Mi allontanai con una scusa. Temevo che mi dicesse in che punto della barca potevo fare le migliori riprese.
Gianfranco Panvini