Marciana Marina ha avuto la fortuna di avere gente appassionata come Beppe Cocchia prima e Antonio Mattera (Elle Elle) oggi che hanno salvato un patrimonio di foto e di memorie che altrimenti sarebbe andato perso. Ho fatto caso che, quando Antonio nelle belle serate che organizza alla sala convegni fa scorrere sullo schermo gigante del cinema quelle istantanee della nostra e delle altrui vite, i mormorii di commento diventano esclamazioni e addirittura applausi quando compaiono non le persone che sono state politicamente o economicamente “importanti” per la crescita del nostro Paese, ma quando le foto fanno riemergere dalla memoria di un passato minore e dimenticato: i freak, i tipi buffi, “i matti” che popolavano La Marina e ne rappresentavano il carattere nascosto, ribelle, povero e irridente, soprattutto per noi che allora eravamo bimbi, figli di una guerra non vista ma appena finita e di un boom economico appena cominciato. Vedendo quelle foto, mi è venuto voglia di scrivere di quei gentili fantasmi con le voci roche di vino e di sigarette che erano usciti intatti e innocenti da una tragedia planetaria e dal sangue, dai pidocchi e dalla fame della Seconda Guerra Mondiale e già destinati a diventare la nostra mai scritta Antologia di Spoonriver, i suonatori Jones che ha cantato De Andrè, e che non dormono sulla Collina ma a due passi dal mare del porto e dal fosso del Toro, e che ogni tanto si svegliano per un fugace momento per salutarci dal ricordo di una foto color seppia.
I ricordi sono così lontani che le vite e gli errori dei nostri nonni sono diventati tenerezza e spero che nessuno si offenda se rischio di svelare – con la mia memoria appannata e gli occhi invecchiati del bimbo di allora e con le leggende marinesi ancora negli orecchi – qualche segreto familiare che è ormai diventato storia di Paese. Questa non è cronaca o storia, è memoria, e la memoria inganna e confonde.
Se avete da fare aggiunte e correzioni agli sbagli che sicuramente farò, questa pagina è aperta.
La prima figurina di questo album della memoria la conoscevo bene: è Ferruccio, o meglio Feruccio.
Feruccio
Feruccio in teoria avrebbe dovuto essere il mi’ nonno, ma la mi’ nonna Natalina - che in realtà si chiama Ilva, come l’antico nome dell’Elba, datole in ricordo della sua isola prima che sua la famiglia partisse per l’altra parte del mondo approdando nel porto cileno di Valparaiso - non l’ha mai sposato e la mi’ mamma era figlia di altri lombi.
Insomma, Natalina, tornata ancora bimba dal Cile perché il mio bisnonno patriota (e forse massone) voleva partecipare alla mattanza della Prima Guerra Mondiale, era allora una donna giovane, bella, libera e “sportiva” - anche se nella sua tarda vecchiaia si sarebbe scandalizzata per i baci che si davano gli attori nelle telenovelas sudamericane – che aveva già due figlie di marinai di terra e di mare quando incontrò e si innamorò perdutamente di quello che allora era probabilmente l’uomo più bello di Marciana Marina e che viveva a pochi passi da lei, al Cotone.
Il giovane Feruccio aveva occhi chiari come l’acqua della Punta della Madonnina, baffetti malandrini, capelli scuri come la notte, un sorriso da svenimento e una sigaretta Macedonia perennemente attaccata alla bocca, penzoloni sul labbro. A Feruccio piaceva anche molto il vino, ma quello era un piacere molto diffuso, sia per festeggiare le poche gioie che per alleviare i molti dolori di un’isola poverissima che viveva alla giornata tra le vigne e il mare. A Natalina piaceva molto Feruccio e ci mise su un figlio e due figlie e Feruccio diede loro il suo cognome. Il figlio maschio si chiamava Oreste ma Feruccio, che era fascista, lo chiamò sempre, e con lui tutto il Paese finché Oreste non fu portato a Volterra, Macallè, perché era nato il giorno della sanguinaria riconquista di quella città etiope da parte dell’effimero impero di Re Sciaboletta e del Duce. Ma questa è un’altra figurina e un’altra storia.
Il fervente fascismo di Feruccio si fermava però alle porte della paura. Aveva due o tre dita in meno della mano destra e, quando nei suoi frequenti naufragi da briaco, buttato fuori di casa da Natalina, veniva ad arenarsi nel nostro letto in cucina, scacciandoci tutti nel letto matrimoniale di Jole e Veleno, ci raccontava spesso che quelle dita gliele aveva mangiate una murena gigante che aveva pescato con un filaccione in un buco degli scogli pallidi dell’Omo. Di fronte a quella bugia ripetuta alla fine il mi’ babbo Veleno, antifascista e comunista che, a differenza di Jole, voleva un bene dell’anima a quel fascista nel quale riconosceva il disertore, ci disse che in realtà la murena non esisteva e che quelle dita, che servivano a sparare col moschetto caro alla Patria, Feruccio se le era staccate da solo con un colpo di pennato quando lo aveva raggiunto la fatale cartolina che lo chiamava alla guerra voluta dai suoi camerati. Guerra per la quale invece partì l’antifascista Veleno.
Ma Feruccio sapeva che le terre gelate della Russia o le sabbie roventi dell’Africa sarebbero state la sua morte ancor prima che lo potesse raggiungere una pallottola bolscevica o albionica e preferì restarsene, mutilato ma vivo, tra le calde e accoglienti cosce di Natalina.
La guerra finì, Feruccio restò orgogliosamente fascista e durante le campagne elettorali, nelle sue notti alcooliche, inneggiava al “Pennino”, come chiamava il simbolo del Movimento Sociale Italiano, la fiamma tricolore appuntita che usciva dalla bara del Duce.
Arrivarono i turisti, o meglio i signori, come li chiamavamo, e vista la mutilazione e la propensione che non aveva mai avuto per un lavoro stabile, Feruccio cominciò a fare lavoretti, a portare (e non era l’unico) le valigie dai pullman in arrivo da Portoferraio alle case dei villeggianti o a vendere casa casa il pesce che rimediava dai pescatori al porto.
Noi lo abbiamo sempre conosciuto con una “graziellina” arrugginita, con una cassetta di legno legata al portapacchi e le ruote sgonfie, che trascinava, carica o scarica, per le vie della Marina e il cui cigolio era per Jole l’annuncio del suo indesiderato arrivo a casa nostra, a San Francesco, dove mangiava, beveva e dormiva a sbafo per un paio di giorni, prima di ricevere lo scontato perdono di Natalina.
Quella bicicletta scassata era in realtà un attrezzo magico che funzionava con una tecnologia inspiegabile. A volte l’estate, quando il moletto del Pesce era affollato di bimbetti che facevano i tuffi e di turisti che facevano fotografie, Feruccio arrivava briaco marcio zigzagando in groppa alla graziellina e si lanciava in mare vestito, riemergendo e restando a pancia e faccia in giù per minuti interminabili, tanto che i turisti ci invocavano di chiamare qualcuno perché quel signore era morto, di fare qualcosa, di salvarlo. Ma noi rispondevamo: “Ma no, è Feruccio, fra poco si gira” e magari gli tiravamo qualche sasso sulla schiena per favorire il risveglio del finto morto dalla catalessi alcoolica/acquatica.
Ma l’esibizione più attesa era quando Feruccio arrivava dritto dritto, urlando a cavallo della bicicletta con le gambe aperte per farsi spazio e la sigaretta accesa in bocca, si tuffava a capofitto dalle seconde scalette del moletto e, pedalando sott’acqua, emergeva sulla spiaggia di sassi, tirando fuori dalla bocca con un colpo di lingua la sigaretta ancora accesa.
Per noi bimbetti era diventato un essere favoloso: pensavamo che resistesse sott’acqua mezz’ora come una balena, che in passato, quando era più giovane, e a volte anche allora, di notte, quando c’era la luna e si poteva vedere sott’acqua, si buttasse al moletto con la sua bicicletta scassata e pedalasse sott’acqua per duecento metri, fino a riemergere al Cotone, sotto la finestra di Natalina, da dove chiamava la mi’ nonna perché scendesse con un limone da fare a fette per mangiare i ricci marroni che aveva colto lungo la sua strada marina. Erano storie che ci raccontavano gli uomini per vedere la meraviglia nei nostri occhi, e noi ci credevamo perché allora tutto era davvero possibile: il mondo era nuovo, ripulito dal sangue, come un coltello su una fetta di pane bianco.
Feruccio non ha mai capito come si chiamavano quei suoi troppi quasi nipoti e, avendo una predilezione per il terzo, Marietto, che con i suoi capelli crespi e gli occhi avventurosi gli ricordava Macallè, ci chiamava e ci chiamò fino alla fine tutti “Maro”, essendo già il nome Mario tutto per intero una fatica da pronunciare.
La sua vita di facchino palombaro ciclista si interruppe improvvisamente: fu portato all’Ospedale Vecchio di Portoferraio, annidato nel cuore della città medicea di Cosmopoli, e Natalina lo accompagnò fino all’ultimo respiro della loro vita di amore scandaloso. Solo poche ore prima di morire Feruccio promise di sposarla e le disse di non piangere perché, dopo la guarigione e il matrimonio, la avrebbe portata in viaggio di nozze in posti dove non erano mai stati: Capoliveri, Portazzuro, Rio Marina… La loro lunga storia d’amore arruffata finì con quella senile tenerezza. E la mi’ nonna, che se ne andò diversi anni dopo il suo amore, lei che veniva dall’altra parte del mondo e aveva attraversato due volte due oceani per restare per sempre al Cotone, in quei paesi isolani non c’è mai stata.
Umberto Mazzantini