“Acqua cheta” festeggia proprio oggi un compleanno importante: cento anni!
Venne infatti rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Roma il 27 novembre 1920 e fu un autentico trionfo. La musica dell’operetta era del maestro Giuseppe Pietri, elbano di Sant’Ilario trapiantato a Milano, mentre il libretto era tratto dall’omonima commedia del fiorentino Augusto Novelli.
Dopo quella trionfale accoglienza, “Acqua Cheta” fece il giro dei teatri italiani e internazionali, ripetendo ovunque il successo della prima. Incantava il suo brio, la sua freschezza e l’originalità del lavoro che, allontanandosi dall’operetta viennese di Franz Lehar e da quella dell’ungherese Emmerich Kalman, con personaggi e scene consone a quei Paesi, ne creava una più autentica e originale, schiettamente italiana.
Fortunato Colella, nel suo bel libro “Giuseppe Pietri musicista italiano” dell’editore Belforte, riporta la cronaca del “Messaggero” di Roma il giorno dopo la rappresentazione
“Un trionfo […] Si sono avute chiamate interminabili ad ogni fine d’atto e si è avuta anche, cosa veramente rara negli annali del teatro, una interruzione lunghissima a scena aperta, mentre si svolgeva il secondo atto, per salutare alla ribalta il valoroso maestro Pietri, cui è stata offerta, in un delirio di consensi, la prova più completa e più entusiastica della perfetta adesione del pubblico alla magnifica opera sua. Questa Acqua cheta è veramente e finalmente la rivelazione dell’operetta italiana.[…] Una favola schietta e toccante, animata da un sano umorismo tutto toscano, un autentico lavoro teatrale che conquista e diverte, al quale danno apparenza e calore di vita creature semplici e vere, vibranti di umanità e di passione. La musica del maestro Pietri è tutta una dovizia di ritmi e di melodie, è fluida, ispirata e originale. […] Accenneremo ai brani che ieri sera sono piaciuti di più: il preludio del primo atto che prorompe in un allegro vivace e delizioso; la caratteristica entrata del vetturale fiorentino nella quale si sente con un bell’effetto l’eco di un canto popolare; un duettino tra il buffo e la soubrette che ha una movenza leggiadrissima – e questo è stato bissato –, un duetto d’amore con un refrain spigliato e particolarmente di buon gusto ed il finale dove si ripetono e si fondono, nel grande impasto dei cori, i ritmi più indovinati e più belli.
Del secondo atto, oltre una romanza del soprano che si spegne con vaghissime smorzature, hanno suscitato i maggiori applausi alcuni stornelli cantati dal tenore entro le quinte e il gran coro della festa delle rificolone. In questa pagina, che commenta una scena oltremodo pittoresca della vita popolare fiorentina, il maestro Pietri ha profuso a piene mani l’onda della sua vena melodica e gli effetti ch’egli ha raggiunto con la mirabile fusione delle voci ed il variato disegno dell’orchestra, sono stati di una tale grazia e di una tale eleganza che proprio a questo punto l’uditorio tutto è scattato in piedi e non solo ha chiesto e ottenuto il bis, ma ha voluto pure che l’autore genialissimo apparisse due volte alla ribalta. Un breve intermezzo ed il finale ispirato ad una suprema delicatezza hanno rinnovato le più festose accoglienze. Il terzo atto vanta un applauso a un’aria interna del tenore, altri applausi alla scena del perdono ed una vera ovazione al coro conclusivo, finissimo per concetti e per fattura.
Ogni volta che il sipario si è chiuso il maestro Pietri ed Augusto Novelli sono apparsi più volte a ringraziare. E più volte sono apparsi altresì i volenterosissimi interpreti. In complesso dodici o tredici chiamate. […] L’acqua cheta , cui è facile prevedere una serie interminabile di repliche, comincia a ripetersi nei due spettacoli di oggi”.
Il maestro Pietri, all’epoca trentaquattrenne, aveva già composto, le musiche di sei opere, tra cui quelle di “Calendimaggio” – scene drammatiche in un atto e due parti – di un altro elbano illustre, Pietro Gori, rappresentata al Teatro La Pergola di Firenze nel marzo del 1910 e di “Addio giovinezza” – con libretto di Alessandro de Stefani, dalla commedia in tre atti di Sandro Camasio e Nino Oxilia – che riscosse un grandissimo successo di pubblico e di critica, tanto da meritare al suo compositore il titolo di “cantore dei goliardi” e di “studente honoris causa” e che fu data la prima volta al Teatro stataGoldoni di Livorno nel febbraio 1915.
All’epoca di “Acqua cheta”, al culmine del suo successo artistico, anche la vita privata del Maestro era vicina ad una svolta: da lì a poco, nel 1923, avrebbe sposato Giovanna Saladino, che era tra l’altro una delle più brillanti allieve di Luigi Pirandello al Magistero di Roma: dal matrimonio sarebbero nati Piero, Gianni e Donatella.
La carriera musicale di Giuseppe Pietri, autore fecondo e instancabile, proseguì con altri sedici lavori, tra operette, commedie liriche, commedia musicale; le ultime tre – “Maristella”, “La canzone di San Giovanni” e “Arsa del Giglio” furono opere liriche in tre atti.
Fra le operette merita ricordare “La donna perduta”, del 1922, da cui venne tratto nel 1940 un film diretto da Domenico Maria Gambino; “Rompicollo”, del 1928, che venne anche rappresentata a Berlino, al Theater des Wolks, con il titolo “Das Grosse Rennen” (La grande corsa), per quattro mesi consecutivi, passando poi ad Hannover, Dresda, Amburgo e in altre città; L’Isola verde, del 1929, ambientata all’Elba, durante l’effimero regno napoleonico e dove, diceva il Maestro “il mare è il vero protagonista, il mare di cui voglio si senta il palpito dalla prima all’ultima nota” e “Vent’anni”, del 1932, l’ultima, prima delle opere liriche, dove “Pietri torna al suo primo amore.
“Forse un tenero e nostalgico addio a Dorina, Mario, Leone, Stinchi, Galileo, Rompicollo e cento altri personaggi delicatamente cullati in pagine e pagine di pentagramma. Per dare al suo pubblico un messaggio di cultura e di speranza. L’arte della vita – diceva spesso Pietri – sta nell’imparare a soffrire e a sorridere” (Fortunato Colella).
Concludo queste mie note, piccolo omaggio al Maestro, con un pensiero e un saluto affettuoso alla figlia, la cara Donatella, a cui le dedico.
Maria Gisella Catuogno