In casa mia non c’era un libro. Il mi’ babbo era analfabeta, la mi’ mamma aveva fatto la terza elementare in un collegio di suore a Roma e la guerra la privò dei risultati di un esame che le toccò dare 30 anni dopo a Marciana Marina, sperando in un posto da bidella che non ebbe mai.
In casa mia non c’erano libri e non c’erano i soldi, il tempo e il posto per metterceli, anche se Jole leggeva Grand Hotel, il giornale della cameriere, che aveva cominciato a comprare da signorina, quando faceva la sguattera a Roma, sognando un amore borghese che non le toccò. Poi quei fotoromanzi servivano per incartare il pesce che portava Veleno o per accendere il fuoco nel camino.
In casa mia i libri entrarono un giorno, forse avrò avuto 7 anni, quando la vecchia maestra Tagliaferro, incuriosita da quel bimbetto di cui le aveva parlato la mia giovanissima maestra, mi apri la porta di un posto magico, traboccante di storie: la biblioteca. E il primo libro che entrò in casa mia fu probabilmente “I pirati della Malesia” con Sandokan e i suoi amici e nemici, le tigri, gli elefanti, i misteriosi gaviali, i terribili sik e Tremal-Naik (il mio preferito) e la Perla di Labuan.
In qualche mese, seduto, tra la madia a muro e il cantone del camino, con le gambe incrociate su una sedia impagliata che già cominciava a sfondarsi, lessi tutte le avventure asiatiche narrate da Salgari, e poi quelle dei pirati dei Caraibi, fino a che non ce ne furono più.
Poi scoprii che da quella biblioteca, spesso sotto una patina di polvere e da pagine ingiallite, macchiate sulla pelle e scricchiolanti come i vecchi, uscivano anche altre storie, bellissime e terribili, buffe e tenere, da piangere e da ridere. Che lì era imprigionato e nascosto il mondo, reale e fantastico, e che bastava sfogliarlo per farlo uscire. Meglio che alla televisione, perché te lo immaginavi a colori e come volevi te.
La biblioteca, piena di libri per bimbi, e di inaccessibili libri per adulti, la lasciai presto per andarmi a comprare libri con i pochi soldi che riuscivo a risparmiare all’appalto di Emilio Onetto, che vendeva, oltre alle sigarette (sfuse e in pacchetti) anche giornali e che teneva, come nascosti, in un angolo per carbonari o intenditori, gli ultimi libri, le novità. Quello che in biblioteca non arrivava.
Fu lì che comprai a 14 anni, forse 13, un libro magico che lessi un’estate, durante tre notti insonni, “Cent’anni di solitudine”, abbandonandomi al flusso indecifrabile come un fiume degli eterni Aureliano Buendia, di Macondo, pappagalli, uomini stellati, guerre e donne testarde.
Fu poco dopo che lessi un libro scandalosamente bello, di meraviglie terribili: “La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata” e poi non riuscii più a fermarmi, scoprendo mondi come quelli di Garabombo l’invisibile, che avrei visto quasi 50 anni dopo nei sorrisi seri dei bimbi e delle donne aymara sulle montagne del Perù. Oppure per ritrovare il bimbetto che ero in “Paddy Clarke Ah Ah Ah” nella Dublino miserabile e innocente di Roddy Doyle, che somigliava come una fotografia a noi, alla Marciana Marina di quando non avevo i libri.
La mi’ mamma diceva che avevo una specie di malattia ereditaria, presa da mi’ zio Lampo che leggeva tutto quel che gli capitava sottomano, anche i bugiardini delle medicine, meno i libri, i miei libri che non avrebbe mai letto.
E Jole aveva ragione: la lettura è una malattia incurabile per scopritori immobili di mondi. E ringrazio la maestra Tagliaferro e l’angelo delle biblioteche per avermela attaccata, Forse l’angelo, a ripensarci, era quello del libro della Candida Erendira, quel signore vecchio, con le ali enormi e malconce, imprigionato in un pollaio, che alla fine volò via. Come fanno i bimbi che leggono. Umberto Mazzantini