In queste notti di influenza e febbre, in un brandello di sogno agitato, mi è venuto a trovare un fantasma gentile della nostra infanzia e gioventù: Ernestino.
Il babbo di Ernestino era un uomo grande e grosso, buono e fortissimo, accanto a lui la mamma di Ernestino era minuta, ma si vedeva che niente le avrebbe impedito di difendere quel ragazzo speciale. Ed è quello che fecero in un tempo in cui – come in tutti i tempi – i bimbi possono essere anche davvero cattivi, usando male le parole che cominciano dire, senza confidenza ancora col mondo e gli uomini.
Poi Ernestino ingrandì e diventò forse la persona più amata della Marina: sempre vestito impeccabilmente, che sembrava uscito dal barbiere, pulito, pettinato, in un periodo in cui noi andavamo in giro come figli dei fiori, con camicie sgargianti, pantaloni stinti a zampa di elefante e capelli lunghi.
A Ernestino volevano bene tutti e lui voleva bene a tutti, esplorava, come fosse una continua meraviglia quel quadrilatero di paese dal quale non sconfinava mai: Via Dussol fino alla Falegnameria Tondi, la strada fino al forno di Iride, Piazza di sotto tra la palma e il mare. Non credo si sia mai spinto oltre il Moletto del Pesce.
Era la sentinella del nostro quotidiano e, piano piano, con la sua timida presenza diventò proverbiale per i suoi modi di dire, per le sue poche parole che segnavano momenti e stati d’animo: “Ariveno!” (i turisti), “Urlaveno!” (quando qualcuno aveva fatto confusione o c’era stato un litigio), ”Eccoli!” (che valeva un po’ per tutti). Quasi slogan reiterati più volte, con i quali Ernestino ci raccontava il suo mondo e scandiva il tempo sempre uguale della nostra comunità che cambiava.
Un'altra cosa che Ernestino diceva spesso, forse per ricordarsi e ricordarci chi considerava il suo amico migliore, era “Ecchero”, che lui pronunciava “Eee.. cchero!”. Ed Ernestino si è affacciato nel mio sogno febbricitante proprio per dirmi, da un tempo in cui esistevano ancora la Cantina Coltelli e l’Albergo La Pace, una sola parola: “Eee.. cchero!”. Forse ha voluto avvertirmi che Domenico Segnini era arrivato nel posto speciale dove vanno i cotonesi quando spariscono da questa vita.
Ma il modo di dire più famoso di tutti che aveva Ernestino era: “Scarpe nove! Scarpe nove!”, seguito dal tentativo di dare un pestone – più simbolico che reale – alle scarpe che avevi appena comprato o lucidato con la ceretta.
Ernestino non dava confidenza a tutti, soprattutto a quelli più giovani di lui. A me non ne dava proprio, nonostante lo salutassi non rispondeva, ero anche per lui un animale troppo strano. Eppure, un pomeriggio di inizio estate, mentre tornavo da un allenamento di corsa, dopo aver fatto il giro del Lavacchio, e scendevo per Via Dussol per andare al lavoro alla Fiaccola, con ai piedi un paio di nuove, fiammanti, bianchissime e leggerissime Reebock che mi erano costate un occhio della testa, mi accorsi che Ernestino era fermo proprio all’incrocio tra via Dussol e Via Cairoli (dove l’ho rivisto nel sogno), che mi guardava attento mentre mi avvicinavo e, quando fui alla sua altezza, non rispose al mio saluto, ma non si mosse per andar via come la solito, mi venne incontro e mi disse: “Scarpe nove! Scarpe nove!” e poi me le pestò con le sue scarpe sempre impeccabilmente tirate a lucido. Per me fu come un battesimo, una consacrazione, come se lo spirito buono della Marina mi avesse accettato. Rimasi lì per qualche secondo, stupito e commosso, mentre Ernestino se ne andava verso altre cose da dire e fare.
E da quel giorno Ernestino cominciò a rispondere al mio saluto e a venirmi incontro con uno dei suoi modi di dire.
Poi Ernestino se n’è andato nel posto speciale dei cotonesi che non ci sono più, a pestare le scarpe eternamente nuove degli angeli, e per tutti i marinesi fu uno shock perché sapevamo che non avevamo perso solo un essere candido che aveva attraversato la nostra vita con le sue poche parole e il suo stupore gentile, ma che avevamo perso anche il custode indispensabile della nostra innocenza.
Umberto Mazzantini
*Dopo aver pubblicato questo post sulla pagina Facebook di Figurine Marinesi, sono stato travolto da molti follower dai ricordi di Ernestino e dei suoi motti che nascevano tutti da esperienze fatte, discussioni carpite, cose sentite dire e viste. Roberto Pitturino – che è una vera miniera di ricordi e un computer umano coi muscoli – mi ha ricordato che Ernestino diceva: "picchia Macallè" o "picchiano i riesi!" e "al cotone semo tusti!" (Al cotone siamo fusti, come gli diceva Gigi Mattone, il più fusto e bello di tutti). Prima di zampicarti le scarpe nuove Ernestino pronunciava anche un misterioso ma onomatopeico “Trush”. Marco Bulleri si è ricordato di un modo di dire che diventò comune a La Marina e che Ernestino diceva sempre per abbassare subito il possibile tasso di nervoso dei suoi interlocutori: “Araggi?!”. Diverse ragazzine di allora, oggi mamme e signore, si ricordano Ernestino quando le chiamava semplicemente Bimba o Bimbaaaa dove vaiiii (Marcella Maranca). Ringrazio le nipoti di Ernestino per le belle e commoventi parole, ma è tutto merito suo, è il suo ricordo ad aver smosso qualcosa che il nostro paese ha sotto la pelle e che a volte cerchiamo di dimenticare in questo tempo cinico e crudele: si chiama bontà e innocenza.
U.M.