“E schiodati da quella sedia, dai, che alle sette a Santa Caterina c’è il concerto…”.
Vabbé, dopo una giornata trascorsa come un’infinità d’altre, a mestare tra i minimi fatti ferajesi e elbanesi, a ragionare sulle magnifiche sorti e progressive di una terra che mi pare sempre più tontocratica, l’opera persuasiva di Noemi ed Emanuela è facilitata, anche se – al solito - abbandono la tana bofonchiando ed obtorto collo.
Mi lascio trasportare come un pacco postale verso l’Isola che guarda a Oriente dal trio femminile che interloquisce fitto nel viaggio, con le attenzioni doverosamente rivolte alla componente più giovane, Frida, che viaggia legata al seggiolino di ordinanza, ma non imbavagliata.
Piano di San Giovanni con “Signore dacci oggi il nostro ingorgo quotidiano”, che mette alla prova la pazienza di Manu che guida, ma per fortuna "il tappo" si dissolve presto, arriveremo, secondo la “donna lombarda” conducente, in ritardo ma “tanto non si inizia mai all’ora giusta”. Ha ragione siamo nella approssimativa Elba, mica nella cronometrica Padania.
Io continuo a pensare al giornale incompiuto ma a sprazzi, e zampicando in qua è in là: “quella mi pare un po’ spocchiosettamente renziana a sua insaputa, se non la smette di insegnare a babbo come si pipa, si mangia il cacio vinciuto in tre mesi…”, “e quell’altro come avrà fatto a scrivere un articolo filato e logico, anche spiritoso, senza guarnirlo di una delle sue creative favate?” “Ommadonna ci risiamo con l’ospedale, speriamo che i movimenti prossimi venturi non ci regalino persone sbagliate a condurre una battaglia giusta”.
Finalmente a Santa Caterina, non c’è ancora musica, ma c’è il tempo per bere un bicchiere di vino e scambiare due parole con una persona “normale” (leggasi intelligente e perbene) come Andrea Tozzi, che è sempre un piacere.
E’ ora del concerto il setting sul sagrato del santuario è quanto di meglio ci si possa attendere ma mi preoccupano gli strumenti che vedo: Arpa, Violino, Violoncello, Tastiere, e un poco anche il look nero-pretigno della Band “Caronte”.
15 secondi, tanti bastano ad apprezzare una voce baritonale usata con straordinaria duttilità anche sulla parte più alta delle righe la singolare maestria di tutti i musicisti.
I “Caronte” mi spiazzano con il loro traghettare Bach (soprattutto lui -Back to Bach si chiama in concerto - come il principio di quasi tutte le musicali cose occidentali, ) nel pop, e con Giovanni Sebastiano, anche Chopin, Rachmaninov, Jean Paul Martini, spiegando, pezzo per pezzo, quanto sia permeata di classico la musica degli ultimi cinquanta anni, dove siano andati a pescare Aphrodite’s Child, Emerson Like Palmer, Presley, Dylan, Oasis Simon & Garefunkel e Radiohead, e i visionari Procul Harum, e mi ritrovo quasi involontariamente a cantare “We skip the light fandango… e poi “one of sixteen vestal virgins who were leaving for the coast” e sento altri “datati” spettatori che, come me, pur sottovoce, cantano le canzoni che non si sono sciolte come le nevi di un tempo, le loro canzoni e, mica si dovrebbe fare ad un concerto di musica seria e dotta come quello a cui stiamo assistendo.
Cerco nella memoria una emozione assimilabile e mi balzano alla memoria Five Bridges dei Nice con l’Orchestra Filarmonica di Londra, la Suite di Karelia, ma quelli erano accostamenti, queste armoniche fusioni di tempi e culture. La sintesi: “cazzo se sono bravi!” sarà poco educata e poco tecnica, ma io sono un consumatore di musica mica un critico, e poi ho licenza di parolaccia.
Finisce in gloria con Frida, infante con la musica nel sangue e anarchica quanto i suoi riccioli biondi, che decide, in occasione dell’ultime pezzo di fare la sua performance, danzando armoniosa al ritmo lento a due metri dai musici divertiti. Poi è una irrituale Standing Ovation, su una terrazza sospesa tra mare e cielo (direbbe un depliant turistico) in una morbida serata di solstizio serenamente in calo, e con gli spigoli severi della chiesetta a far da contrappunto.
Rifacciamole certe cose, fanno bene