Zecchini scrive: “del libro Berti non ha capito nulla”.
Cerchiamo allora di fare chiarezza.
In particolare occorre chiarezza su una brillante intuizione di Zecchini a proposito del testo greco di Apollonio Rodio, in cui è descritto lo sbarco degli Argonauti all’Elba.
L’argomento è astruso e, per chi non ha familiarità col greco antico, anche decisamente noioso.
Perciò scriverò in caratteri più grandi alcune riflessioni e la conclusione, mentre le argomentazioni attinenti alla filologia avranno caratteri molto piccoli e potranno essere saltate a piè pari (chi le vuole esaminare, può scaricare il pezzo e ingrandire i caratteri).
Nel mio scritto precedente avevo citato un articolo del dott. Alessandro Corretti, già allievo della professoressa Orlanda Pancrazzi e ora direttore del Laboratorio di scienze dell’antichità della Scuola Normale Superiore di Pisa.
L’articolo di Corretti è apparso a pagina 231 del quaderno dell’Università di Siena “Materiali per Populonia 3”, pubblicato nel 2005 dalle Edizioni all’insegna del giglio.
Corretti (molto noto all’Elba per le sue conferenze di Archeologia) riporta a pagina 233 il brevissimo testo del poema di Apollonio Rodio “Le Argonautiche” sulla tappa elbana del mitico viaggio degli Argonauti:
654 Στοιχάδας αὖτε λιπόντες ἐς Αἰθαλίην ἐπέρησαν
655 νῆσον, ἵνα ψηφῖσιν ἀπωμόρξαντο καμόντες
656 ἱδρῶ ἅλις: χροιῇ δὲ κατ' αἰγιαλοῖο κέχυνται
657 εἴκελαι: ἐν δὲ σόλοι καὶ τρύχεα θέσκελα κείνων
658 ἔνθα λιμὴν Ἀργῷος ἐπωνυμίην πεφάτισται.
(Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro IV, versi 654-658)
Come si vede, Apollonio dedica alla tappa elbana soltanto cinque versi: le sue parole sono poche e non sempre chiare.
Corretti osserva che nel verso 657 i principali codici riportano τεύχεα (armature).
Però egli adotta la lezione τρύχεα (stracci, vesti), che appare nel codice Soloranus: questa lezione è preferita dai filologi in quanto lectio difficilior. Sia chiaro che nel prezioso lavoro dei filologi non esiste la certezza assoluta.
Nel 1973 il prof. Enrico Livrea, ordinario di Greco nell’Università di Bologna, curò l’edizione del quarto libro delle Argonautiche per la casa editrice La Nuova Italia. Corretti scrive che nel testo critico del prof. Livrea è presente anche una terza lezione: “Un’altra possibile correzione, riportata dal Livrea, è τρύφεα, sulla base di una glossa di Esichio (s.v. τρύφος)”, dove la sigla s.v. significa sub voce.
Sulla presenza di Giasone e dei suoi compagni nella nostra isola, Apollonio non aggiunge altro. Talvolta si sente parlare di questo mitico sbarco degli Argonauti: penso perciò che ci possa essere una certa curiosità per la traduzione italiana di quei versi:
Poi lasciando le Stoecadi passarono per l'isola Aethalìa,
dove dopo la loro fatica hanno spazzato via con ciottoli sudore in abbondanza;
e ciottoli di colore come la pelle sono sparsi sulla spiaggia;
e ci sono i loro dischi e le loro armature meravigliose;
e vi è il porto chiamato Argòo dopo di loro
La traduzione italiana che io ho ricopiato si riferisce a un testo con la lezione τεύχεα: armature. Nel caso che si preferisca una delle altre due lezioni, dovrà essere scelto un aggettivo italiano più appropriato.
Zecchini parte da un testo greco che adottava la lezione τρύχεα col significato di “stracci” oppure “vesti”.
Leggiamo ora il testo del libro di Zecchini (pagina 39):
“Non riuscendo a capire che cosa potessero avere di prodigioso degli stracci, ho cercato di trovare una nuova chiave di lettura rianalizzando testo, codici e i molteplici aspetti della questione con l’aiuto di un grecista di caratura internazionale qual era il prof. Riccado Ambrosini”.
Secondo il racconto di Zecchini, lui e il prof. Ambrosini (ora defunto) trovarono la “soluzione dell’enigma”: Zecchini dice che ci fu un “travisamento consonantico” tra τρύφεα e τρύχεα.
In altre parole, uno degli amanuensi che nel corso dei secoli ricopiarono il testo di Apollonio, scrisse la lettera greca χ (“chi”), mentre avrebbe dovuto scrivere φ (“phi”, che di solito si legge “fi”).
Apollonio scrisse τρύφεα, ma i copisti sbagliarono e scrissero τρύχεα.
I casi di travisamento da parte dei copisti si contano a migliaia. Negli ultimi anni mi sono un po’ occupato - da dilettante autodidatta - di esegesi biblica: si consideri che ci sono arrivati 5306 manoscritti del Nuovo Testamento: di 5306 testi, non ce ne sono nemmeno due uguali fra loro: i copisti hanno inserito innumerevoli varianti.
Però lo scambio tra φ e χ affermato da Zecchini non corrisponde alla realtà dei codici, nei quali si trova τεύχεα e non τρύχεα, con l’eccezione del codice Soloranus a cui i filologi hanno deciso di dare la preferenza proprio perché lectio difficilior.
Insomma Zecchini arriva a sostenere che la lectio difficilior deve essere ulteriormente corretta: nei codici c’è τεύχεα, che sarebbe la copia errata di τρύχεα, che sarebbe, a sua volta, la copia errata di τρύφεα.
Col linguaggio dei tuffi, un doppio salto mortale carpiato avvitato all’indietro.
Sorprende che sia stato necessario tutto questo complicatissimo lavorio di correzione della correzione da parte del prof. Ambrosini e di Zecchini per arrivare alla lectio τρύφεα, che invece era già spiattellata e stampata nero su bianco nell’edizione critica del prof. Livrea.
È pensabile che uno studioso come il prof. Ambrosini non abbia consultato il testo critico del prof. Livrea? No. Lo escludo. Questa ipotesi è un’offesa alla serietà del prof. Ambrosini.
Dunque nel racconto di Zecchini qualcosa non convince.
Zecchini dovrebbe spiegare ai suoi lettori e alla comunità scientifica perché attribuisce la lectio τρύφεα a sé stesso (con l’avallo del prof. Ambrosini), e perché non cita il prof. Livrea.
Alcune notizie dai giornali tedeschi: Marzo 2011: il ministro della Difesa Guttenberg, si dimette perché un giornalista aveva rivelato che nella tesi di dottorato si era appropriato di idee di altri, senza citare gli autori.
Febbraio 2013: la signora Annette Schavan, ministro dell’Istruzione e della ricerca scientifica, si dimette per gli stessi motivi: nella tesi di dottorato aveva presentato come proprie alcune idee di altri, senza citare le fonti.
Nel libro, nelle pagine 233 e seguenti, anche Zecchini protesta, perché alcuni disegni dei suoi libri sono stati copiati, senza che il suo nome fosse citato.
Lo invito pubblicamente a rispondere a questa semplicissima domanda.
L’essersi appropriato della lectio τρύφεα del prof. Livrea è un caso di plagio oppure no?
A noi gente comune l’episodio dell’appropriazione di una “lectio” può apparire un po’ bizzarro: se fosse confermato che il Professore è stato scoperto a copiare il compito, i più maliziosi sorriderebbero, come è già successo per la pubblicazione del graffito dell’etrusco Pino Fabbri.
Ma per la comunità scientifica il plagio è un fatto grave, equivalente quasi a uno scippo.
Ricordavo all’inizio l’affermazione di Zecchini che io non ho “capito” il suo libro.
Sicuramente è così: il libro - con presentazione di Prianti e risvolto di copertina di Ciumei - supera le mie capacità intellettive: seppur dotato dalla Natura di un grossa testa, non arrivo a concetti tanto sublimi.
Perciò Zecchini ha il dovere di spiegare ai suoi lettori (e alla persona che ha generosamente sostenuto la spesa della stampa) se c’è stato un plagio oppure no.
Spero che la spiegazione sia convincente, perché sarebbe sgradevole il coinvolgimento postumo del prof. Ambrosini (che non si può difendere) in una opaca vicenda di plagio.
Gian Piero Berti