Ultimamente sulla stampa online appaiono scritti di amici dell’Elba che vengono a trascorrere le vacanze sull’isola che mettono in evidenza come l’Elba sia cambiata negli anni e indicano soluzioni e suggerimenti per un sano sviluppo dell’isola.
Bene, è giusto e ben vengano da ogni parte consigli per il bene di questa terra. Però…
Però vorrei sottolineare che non è che gli elbani siano ciechi e sordi, che solo chi fa politica nei partiti o nelle associazioni culturali, ambientaliste e sociali si guarda attorno, magari portando farina alla loro idea, anche gli elbani “non impegnati”, le persone comuni, gli invisibili che vivono l’isola tutto l’anno vedono e sentono.
Perciò quando leggo tali articoli, un po’ mi sento offesa come elbana, come se gli isolani fossero incapaci o ignoranti, nel senso originario del termine, cioè che non conoscono la materia, che non hanno “cultura”.
A riprova riporto sotto un mio breve scritto del 2008. Quindi amanti e innamorati dell’Elba, scrivete pure, ma sempre rispettando chi ci vive e lavora e che all’isola tiene sicuramente più di tutti i foresti che la frequentano seppur da una vita.
“Cara isola, che all’alba timidamente emergi dalla nebbia per svanire a sera nell’alone rosso del tramonto, appari terra promessa per la tua forma armoniosa adagiata nel mare, terra lontana mille miglia da mali e inquietudini.
E lo sei nella quiete invernale, nei sentieri boscosi a primavera, nelle dune delle spiagge, nelle barche che solitarie s’allontanano da te per guardarti dal mare, mentre la brezza accarezza la pelle del pescatore paziente.
O meglio, lo eri prima che ti violentassero per obbligarti a tenere allargate le gambe più a lungo possibile. Avrà compreso l’uomo la tua vera natura oppure continuerà a infierire su di te? Sei stata sì, un bene prezioso nel tempo delle vendemmie autunnali, nell’era della sostanza che seguiva la fame, nei campi coltivati a vigna, nei cunicoli delle miniere, nei pescatori che gettavano in mare i pesci appena nati, ma oggi sei un ibrido che intinge il pensiero nell’effimero, capace di offrire un godimento frettoloso e passeggero, a pagamento. Manchi di vita propria.
Sei e non sei. T’hanno distrutta, vecchia isola. L’uomo ha ferito col cemento il tuo volto, poi le braccia, infine il dorso, il ventre, le cosce, anno dopo anno, fino a oscurare i tuoi veri lineamenti che tuttavia non erano perfetti, perché sei madre, ma anche matrigna.
Ti conosco bene, vecchia isola! Sei Circe che offre dolci bellezze e stordisce con il profumo di essenze misto alla salinità del mare, nascondendo la sua parte maligna. Sul tuo corpo strisciano vipere dalla lingua biforcuta che salgono sugli alberi nel mese dell’amore. Chi ti sposa e si adagia tra i tuoi seni renosi, le rosse scogliere, i cumuli di alghe, le morbide colline, le piane fertili, la montagna aspra con ai piedi i castagneti, s’ammala, talvolta muore di mano propria.
Sai essere bellissima e materna se togli il trucco, se torni a respirare e mostri le rughe e le unghiate della storia, se espelli il marcio e lasci i fossili mischiarsi ai sassi e la tua gente godere di te tutto l’anno senza sentirsi umiliata dalla propria origine. Non è dalla ribalta illuminata, ma dalle viscere della tua terra ricca di mille minerali che rinascerà il sorriso e che accoglierà i migranti con la naturalezza che ti è innata.
Ti prego, cara isola, torna a mostrare la tua vera essenza, affinché i miei e i tuoi figli non fuggano lontano verso un’altra terra promessa che non potrà mai esserle madre naturale.
Ora ti saluto, vecchia isola, che il sole sta per tramontare e nelle piane l’umidità infastidisce le ossa.”
Alessandra Palombo